Ricordando Zaha Hadid. L’editoriale di Renato Barilli
A cinque mesi di distanza dalla morte dell’architetto di fama planetaria, il mondo non smette di parlare di lei. Complice il suo piglio risoluto nel fare terra bruciata attorno alla logica costruttiva dei 90 gradi, preferendo le tanto discusse linee curve, vera e propria eredità lasciata ai posteri.
L’ARCHISTAR DEI RECORD
Zaha Hadid era un’archistar con due record a suo merito: essere stata l’unica donna in grado di iscriversi in quel club, e averlo fatto con un estremismo cui non sono giunti i colleghi. Lei è stata la più risoluta e coerente nel dichiarare l’atto di morte della geometria euclidea, che ha dominato nei secoli, o addirittura nei millenni, l’intera prassi edificatoria, almeno presso la cultura occidentale. Molti hanno ricordato una sua frase che non potrebbe essere più significativa: “Il mondo non è un rettangolo”. Una conferma del fatto che viviamo da tempo in una civiltà retta dalla tecnologia di stampo elettromagnetico-elettronico, con la sua connessa imposizione di tutto un patrimonio di forme curvilinee, ellittiche, paraboliche ecc., al di là di quanto, nell’ortodossia meccanocentrica dei secoli precedenti, poteva essere ammesso solo attraverso applicazioni della circonferenza, allungandola nella volta a botte o facendola ruotare su se stessa nella cupola, che sono le classiche eccezioni a conferma di una regola dominante.
CONTRO I 90 GRADI
Se il postmoderno assume un significato, è proprio intendendolo come protesta radicale contro ogni sopravvivenza della dittatura dei 90 gradi e di tutta la loro discendenza, il che corrisponde anche all’irresistibile avvento della progettazione affidata al computer. Di questa rivoluzione, Hadid è stata la più lucida e vigorosa esponente, l’unica che si slancia sciolta e decisa a inanellare le sue curve, i suoi “lazos” scagliati nello spazio, ad attorcigliarsi su se stessi, e a sfidare quanti ancora si affannano a reclamare “pareti lisce”. Ne sappiamo qualcosa, visto che abbiamo assistito alla lunga gestazione del Maxxi, contro cui è stata scagliata l’accusa di non avere pareti per ospitare “quadri”, senza tener conto che ora è proprio la misura del “quadro” a essere messa in discussione, a vantaggio di installazioni e altri interventi site specific, che in qualche modo le soluzioni curvilinee della Hadid provocano, incoraggiano, tutelano, mentre del resto non mancano spazi distesi pronti ad accogliere opere più tradizionali.
UN’EREDITÀ CURVILINEA
Tra i progetti non terminati lasciati in eredità dalla Hadid c’è pure lo “Storto” di Milano, un grattacielo che si guarda bene dall’innalzarsi rispettando la regola del filo a piombo, bensì si torce, come se un gigante lo afferrasse e lo “strizzasse” per renderlo coerente e rispondente al nostro Zeitgeist. Torna a echeggiare un quesito, già risuonato al tempo delle costruzioni di Gaudí: “Come si vive in quegli spazi sottratti alla confortante e tradizionale sicurezza del rettangolo e dei suoi statici derivati?”. Ma forse sarà l’intera umanità a mettersi in viaggio, ad abbandonare i comodi rifugi euclidei per avventurarsi in queste rotte scandite da famiglie geometriche di nuovo conio, con il relativo indotto di ordine psicologico.
Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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