Nove storie sulla tappezzeria. Frederick Kiesler e Marc Dessauce
Quarto appuntamento con i racconti di Luigi Prestinenza Puglisi, incentrati sul dialogo instabile tra arte e architettura. Stavolta tocca a un architetto “intoccabile”, messo in discussione attraverso l’analisi di una delle sue opere più acclamate.
IL SAGGIO CENSURATO
1996: nel nome di Frederick Kiesler, di cui si deve organizzare una retrospettiva per il centro Pompidou, si consuma un’operazione di silenziosa censura. Dal catalogo è, infatti, depennato uno dei contributi critici redatto da Marc Dessauce, un brillante e informato studioso trentaquattrenne francese, trasferitosi da una decina d’anni a New York. La ragione è che Dessauce propone una stroncatura senza appello di Kiesler, giudicata intollerabile in una mostra che lo deve celebrare: lo accusa di aver copiato artisti e architetti a lui coevi, di aver plagiato Marcel Duchamp trasformandone i disegni in progetti di architettura, di aver proposto una visione dell’arte ambigua, dilettantistica e confusionaria.
Il testo di Dessauce appare lo stesso anno, pubblicato dalla Sens & Tonka. Il titolo: Machinations. Essai sur Frederick Kiesler, l’histoire de l’architecture moderne aux États-Unis et Marcel Duchamp. Nonostante Machinations sia pensato come un pamphlet, finalizzato a una polemica generata dalla sua stessa esclusione dal catalogo ufficiale della mostra, il saggio passa sotto silenzio.
In effetti, per quanto ben documentato, esso pone la questione in termini troppo perentori: Kiesler, imbroglione, plagiaro e sostenitore di un’idea estetica confusa, non può essere un grande artista. Mentre è facile da obiettare a Dessauce proprio l’opposto: l’interesse di ricerche architettoniche come la Endless house, la bontà di allestimenti come la galleria The Art of This Century, la potenza plastica di sculture come Galaxy.
Censurare il saggio di Dessauce è però sciocco e oggi, considerata la prematura morte del critico francese, avvenuta nel 2004 a soli 42 anni, particolarmente ingiusto.
Forse frutto di un preconcetto simmetrico: quello per il quale se un artista è tale deve avere una solida moralità. Mentre proprio il saggio di Dessauce sarebbe stato un ottimo pretesto per mostrare che un personaggio come Kiesler contraddice sia le conclusioni dei suoi estimatori, che a tutti i costi lo vogliono vedere sotto una luce morale, sia dei suoi detrattori, che lo vogliono giudicare non in base alla sua bravura ma alla sua fedina etica.
GLI ESORDI DI KIESLER
Questo quarto scritto sulla tappezzeria, che affronta gli ambigui e instabili rapporti tra architettura e arte, sosterrà proprio la grandezza di Kiesler bugiardo (una delle sue bugie: diceva di essere viennese e allievo di Loos), plagiaro, confusionario, teoricamente poco consistente. E lo farà attraverso l’opera commissionata a Kiesler da una delle figure più geniali e inconsistenti dell’arte contemporanea, Peggy Guggenheim: la galleria Art of This Century, il suo capolavoro che oggi verrebbe liquidato come una inutile spettacolarizzazione espositiva con trucchi da baraccone.
Prima però di parlare di quest’opera, dove è tutto lo spazio che diventa tappezzeria, è bene ricordare che Kiesler aveva una formazione De Stijl. Nel 1925, all’esposizione universale di Parigi, quella in cui Le Corbusier espone il padiglione dell’Esprit Noveau, e Mel’nikov il padiglione sovietico in stile costruttivista, il trentacinquenne Kiesler si fa conoscere con un progetto di un prototipo spaziale che si libra nell’aria, la City in Space. L’idea è irrealizzabile, al di fuori del limitato spazio espositivo, per l’ovvia mancanza di supporti dal cielo in grado di sostenere insediamenti urbani. Kiesler, da parte sua, è elusivo nello spiegare come la città reale possa effettivamente fluttuare nell’aria una volta tolti i fili dal soffitto. Pare che a Le Corbusier, incuriosito e incredulo il quale gli chiese: “Pensi di sospendere queste case agli Zeppelin?”, abbia risposto: “No, penso di sospenderle grazie alla tensione”, sfuggendo a qualunque approfondimento. Fatto sta che pochi progetti del Novecento hanno avuto tanta forza nel rappresentare il sogno della contemporaneità di leggerezza, trasparenza e poli-direzionalità. Tanto da suscitare l’entusiasmo di Théo van Doesburg: quel van Doesburg che abbiamo incrociato nel primo scritto sulla tappezzeria, anche lui accusato di scarsa serietà, di arroganza e di inconsistenza teorica, ma che – come intuì Bruno Zevi nel libro Poetica dell’architettura neoplastica – fu uno dei grandi costruttori della modernità (immaginatevi per un istante come sarebbe stato ingessato il movimento De Stijl in mano a Mondrian e ad Oud).
A TU PER TU CON PEGGY GUGGENHEIM
La galleria The Art of This Century fu aperta da Peggy Guggenheim, alla 30 West 57th Street di Manhattan, il 20 ottobre del 1942, in pieno conflitto mondiale. La Guggenheim, che in Europa aveva accumulato una collezione ragguardevole di opere d’arte, era fuggita dalla Francia per mettersi in salvo dalle persecuzioni razziali. Lo poteva fare perché cittadina americana e appartenente a una delle famiglie più facoltose degli States, anche se oramai aveva poco e nulla a che vedere con il ricco zio che, per mano della baronessa Hilla Rebay, darà vita al più famoso Guggenheim Museum progettato dal genio di Frank Lloyd. Wright. Il padre di Peggy si era infatti fatto liquidare dai cugini prima che questi accumulassero le loro immense fortune ed era morto da trenta anni, il 14 aprile del 1912, nella tragedia del Titanic, lasciandola ereditiera ma di una rendita molto più modesta.
Peggy Guggenheim, consigliata da Marcel Duchamp, si era rivolta nel febbraio del 1942 a Frederick Kiesler per il progetto di questo spazio attraverso il quale avrebbe voluto lanciare l’arte moderna a New York. Con Kiesler, e probabilmente con le suggestioni di Marcel che in quell’anno si era fatto affittare una stanza proprio nell’appartamento di Kiesler, decidono di realizzare un’opera inusitata, in cui l’arte avrebbe potuto essere esposta in modo da coinvolgere attivamente, e non passivamente come nelle altre gallerie, lo spettatore. Lo spazio, composto da due locali affiancati, precedentemente adibiti a sartoria, era diviso in quattro gallerie specializzate: la surrealista, la astratta, la cinetica, la galleria della luce del giorno perché, a differenza delle altre, fronteggiava le grandi finestre sul prospetto.
L’idea di Kiesler è di sottrarre, innanzitutto, i quadri alle loro cornici e cioè a quell’espediente oramai storicizzato che serve a delimitarli rispetto alla parete, individuandoli come una finestra prospettica su una realtà fittizia. Eseguita questa operazione, le tele sono sottratte anche alle pareti per diventare oggetti fluttuanti nello spazio: distanziate tramite bracci inclinabili, appesi a fili sottili, organizzate all’interno di dispositivi mobili collocati nei muri e accessibili allo sguardo tramite spioncini. Al libero movimento dei quadri corrisponde quello delle persone, che li guarderanno in piedi, seduti o anche sdraiati. Opere e uomini, insomma, si dispongono all’interno dello spazio come elettroni in movimento. Accompagnati in questo da luci che si alternano illuminando ora una parte ora un’altra e da suoni (la Peggy a un certo punto eliminerà i suoni dalla galleria, reputandoli alla lunga insopportabili).
GENIO O INGENUITÀ?
Un’idea straordinaria o trucchi da circo? Sono possibili ambedue le risposte. Oggi, in un periodo di moralismo architettonico e di feticizzazione della white box, si propenderebbe per la seconda risposta. Come non sorridere davanti a una grande ruota collocata sul muro che garantisce a chi guarda dallo spioncino di vedere le opere di Duchamp girare una di seguito all’altra? O come non preoccuparsi dell’ingenuità di realizzare una galleria dedicata all’arte astratta con un allestimento lineare e asciutto e una dedicata al surrealismo con un allestimento uterino e coinvolgente?
Certo è che proprio queste ingenuità, anche scopiazzate come ha messo in evidenza Dessauce, conducono in un mondo in cui arte e architettura interagiscono producendo nuova energia. Facendoci vivere all’interno di una tappezzeria tridimensionale di cui noi stessi siamo parte integrante, protagonisti. Fine della quarta puntata. Sì, lo so: detto così, tutto può essere tappezzeria. Ma vi avevo avvertiti sin dalla prima puntata che useremo il termine in molte e improprie accezioni.
Luigi Prestinenza Puglisi
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