Le città invisibili. L’architettura come soggetto e scenario, a Venezia
Una mostra a Venezia indaga il ruolo dell’architettura nell’arte contemporanea attraverso sei video. Ne abbiamo parlato con la curatrice Stephanie Cristello.
Spazi, edifici, labirinti di immagini. L’architettura incontra le immagini in movimento, e anche una serie di suggestioni letterarie, nell’ambito della mostra ospite presso lo Spazio Ridotto di Venezia, esito della collaborazione tra Zuecca Project ed Expo Chicago.
Quali sono i temi su cui è costruita la mostra?
Il primo progetto curatoriale è cominciato con l’invito a lavorare su una mostra di opere che sarebbero state viste durante la Biennale di Architettura, in un’estensione del programma di Expo Video, che seguo in qualità di direttrice ad Expo Chicago. Sapevo sin da subito che il focus sarebbe stato sulle interazioni tra queste due discipline. La mostra ospita una selezione di film, video ed opere new media che si occupano di architettura in senso ampio, su spazi immaginari, sulla provvisorietà e la presenza di elementi narrativi nelle opere in cui le immagini sono in movimento.
A quali espedienti hanno fatto ricorso gli artisti e come avete strutturato l’allestimento?
L’attenzione degli artisti verso la costruzione di spazi all’interno della tradizione filmica – nell’opporsi o aderire alle convenzioni del cinema di costruzione di un paesaggio – era un punto di partenza di particolare interesse. Inoltre il Modernismo è una tematica centrale, insieme ad aspetti come la presenza artificiale della camera o la sua elusione, le modalità classiche della cinematografia che gli artisti impiegano o mettono in discussione, l’uso del set del cinema o il mescolare immagini di documentazione in maniera incomprensibile. Tali espedienti tecnici, solitamente impliciti nel cinema mainstream, sono usati qui in maniera differente. Grazie al particolare allestimento dei sei video, azioni ambientate in interni e in poetiche situazioni naturali si svolgono con un andamento cadenzato; il modo labirintico di muoversi tra i lavori è esso stesso architettura, come pure il percorso mentale cui è chiamato l’osservatore. Il colpo di genio è che puoi costruire uno spazio con un file .mov!
Perché hai scelto Le città invisibili di Italo Calvino come titolo ed elemento di partenza?
Considerato che sarebbe stata una mostra collettiva, ero affascinata dalla forma a episodi in cui il libro è strutturato. Capitolo dopo capitolo, ciascuno di poche pagine, esso descrive una metropoli del tutto immaginaria, una città sospesa con strade come ragnatele. Città che magicamente rinnovano le proprie fonti di notte in maniera tale che nulla sembra essere stato usato; città le cui strade rispettano meticolosamente le orbite dei pianeti o le costellazioni. In un passaggio Marco Polo afferma che ciascuna città è un’immagine di Venezia, “la prima città, che resta implicita”. Ho pensato allora, con la mia collega Alexis Brocchi, come ciascun film che volevamo selezionare potesse continuare questo aspetto narrativo de Le città invisibili enfatizzando il contesto architettonico.
E poi?
E poi ero conscia che volevo lavorare con un film in particolare, The Republic (2014) di David Hartt, di cui avevo scritto mettendolo in relazione con il testo di Calvino. Nel film sono utilizzati i piani urbanistici dell’urbanista greco Constantinos Doxiadis per Atene e Detroit come inizio di un percorso formale tra i due progetti mai terminati. Ho scritto che, nel tentativo di descrivere queste due città, attraverso il suo piano urbanistico ne realizza il terzo. Questo terzo spazio – estraneo, voyeuristico e inventato – condivide le qualità del testo di Calvino, e unisce i lavori selezionati in un tutt’uno.
Potresti sintetizzare le caratteristiche dei video che hai scelto?
Oltre a The Republic, One Way Street (2002) di Jonas Dahlberg, esteticamente molto simile, è un video in bianco e nero in cui c’è una panoramica lenta in prospettiva centrale lungo una strada, in cui la pioggia luccica. Le immagini condividono lo stessa inquietante atmosfera dei film noir, e mancando i dettagli che potrebbero farlo riconoscere come un posto reale: sono assenti, infatti, tutti gli aspetti che contribuiscono a definire i luoghi, ogni cosa è uguale e piatta, quasi fosse una scenografia per un cartoon. Quando l’osservatore si rende conto che si tratta di una modello in scala, all’improvviso la sua percezione ha un salto. Un altro film in cui c’è tale spostamento e Llano (2012) di Jesper Just, ambientato nelle rovine di una comune californiana del secolo scorso, in cui una donna cerca di ricostruire un muro di roccia sotto un rovescio torrenziale. Alcune cose non tornano: la presenza del sole e poi l’essere nel deserto. Just lascia lo spettatore nell’ambiguità finché la camera inquadra una rain machine simile a quella impiegata nei set dei film di Hollywood.
E per quanto riguarda gli altri?
Gli altri due hanno a che fare con le città moderne in un modo più diretto. Double Empire (2000) di Bettina Pousttchi, uno dei suoi primi lavori, che reinterpretano le classiche, iconiche riprese di Warhol dei palazzi, ma dando l’impressione che la camera sia ferma, mentre il negativo si muove velocemente, creando con le immagini veloci un disorientamento, poiché gli occhi dell’osservatore sono costretti a muoversi su e giù lungo il profilo dell’edificio. Un sintetizzatore in stile Anni Ottanta suona in sottofondo, in maniera infausta e fastidiosa fino al punto di trasformare il palazzo in un vertiginoso simbolo horror. Alltagzeit (In Ordinary Time) di Iñigo Manglano-Ovalle, realizzato nel 2001, è allucinatorio, ma in maniera sottile. Filmato all’interno della Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe a Berlino, mostra figure che appaiono e scompaiono come fossero olografie. La presenza umana all’interno dell’architettura è solo eterea, in negativo, quasi fantasmatica. L’ultimo film, A Diptych, A Chronicle (2016) di Virgina Colwell, abbandona l’opera che si concentra strettamente sull’architettura e sul cemento, con riprese che, invece, raccontano di isole e di mare: è l’unico video dotato di dialogo, che per questa mostra è stato tradotto in italiano.
Le opere in mostra analizzano il ruolo dell’architettura con due differenti approcci: come luogo/background, quasi costituissero un set teatrale, e come soggetto d’analisi esso stesso. A tuo giudizio, in che modo l’architettura influisce sull’arte oggi?
Il fatto che l’architettura influenzi l’arte contemporanea in molte istanze è il punto fermo della mostra. Spesso il luogo in cui l’arte è mostrata condiziona l’opera: nell’osservazione, nel contesto, ma, ancora più frequentemente, nelle modalità con cui esse sono visibili. Ad esempio, in un luogo come Spazio Ridotto volevamo fare l’opposto, invertire le dimensioni piccole dello spazio nell’espansione dell’architettura, sia dal punto di vista concettuale che esperienziale, anche se in forma momentanea. L’aspetto cui sono più interessata è però che la maggior parte dell’architettura non viene realizzata, e rimane non costruita, pura idea, pura aspettativa. Queste sono forse “Le città invisibili” che delineano la comprensione del nostro ambiente, quelle mai abitate e che esistono in qualche modo remoto. L’arte e il video possono avvicinare l’osservatore a questi spazi puramente teorici.
Daniele Capra
Venezia // fino al 10 dicembre 2016
Invisible Cities
a cura di Stephanie Cristello
SPAZIO RIDOTTO
Calle del Ridotto 1835
041 2406840
www.zueccaprojectspace.com
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/58152/invisible-cities/
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