Architetti d’Italia. Massimiliano Fuksas, la pecora nera
Secondo appuntamento con la serie di Luigi Prestinenza Puglisi dedicata ai protagonisti dell’architettura italiana. Dopo Renzo Piano, è la volta di Massimiliano Fuksas.
Torniamo per un attimo al padiglione italiano della Biennale di Venezia del 2014. Il curatore, Cino Zucchi, sotto il titolo Grafting (innesti), chiama a raccolta i progetti di ottantacinque studi di architettura italiani. Il numero esagerato è in linea con le scelte ministeriali per il padiglione: cercare di non scontentare alcuno. Tuttavia, come è inevitabile, ci sono nomi che mancano all’appello. L’assenza più evidente è quella dello studio Fuksas, dopo Piano il secondo gruppo di progettazione italiano, con al suo attivo diverse opere che affrontano il tema dell’innesto generato da interventi contemporanei in tessuti storici.
Massimiliano Fuksas piace poco alla gente che piace.
E, nel 2014, a fargli terra bruciata sembra essere, in particolare, la Nuvola, la sua opera più importante a Roma. I costi lievitano e non riesce a concludersi: verrà inaugurata solo nel 2016 e a tutt’oggi – gennaio 2017 – non è operativa. A suggerire le ragioni dell’esclusione, provvede involontariamente il comico televisivo Maurizio Crozza che, nella sua caricatura dell’architetto Fuffas, sciocco e alla moda, sembra fargli il verso.
Ma sono soprattutto i progettisti radical chic, assetati di teoria e di voglia di tornare all’architettura disegnata di Aldo Rossi e della Tendenza, che hanno decretato l’ostracismo per l’architetto romano: lo giudicano impresentabile, volgare, autoreferenziale.
Cino Zucchi, probabilmente uno dei migliori architetti italiani e sicuramente il più raffinato della sua generazione, non fa parte di questa neo avanguardia del disegno. Tuttavia non si può evitare di notare il fatto che le strizzi l’occhio, tanto che fa allestire, sempre nel padiglione italiano, una Quadreria – la chiama proprio così – con i disegni di tutti i nuovi fautori del rossismo e della Tendenza. Un’operazione che, proprio per l’autorità progettuale di chi l’avalla, non passa inosservata. Come a dire: l’architettura italiana del prossimo futuro non solo si farà principalmente per innesti nell’esistente, e quindi con edifici fortemente sotto tono e contestuali, ma i nuovi protagonisti saranno quei giovani che si muoveranno in una direzione opposta a quella gestuale dei vari Fuksas e dei residuati della cultura zeviana, che, proprio durante gli anni della Tendenza, si era opposta a quel modo di vedere l’architettura della quale la Quadreria rappresentava il revival.
DIVISIONI E SCONTRI
È interessante, inoltre, notare che nel periodo in cui dominavano Rossi, Tafuri e la Tendenza, il grande escluso, la pecora nera, era Renzo Piano insieme al centro Pompidou di Parigi, giudicato concordemente dall’accademia come non architettura. Oggi Piano, che nel frattempo ha molto ammorbidito la sua linea progettuale, non solo è stato riabilitato ma, unanimemente, è portato a modello ed esempio, mentre la pecora nera è diventata Massimiliano Fuksas.
È stato l’antropologo René Girard a spiegare l’importanza che hanno i capri espiatori nelle culture tradizionali e moderne. Servono a separare il male dal bene e così a fornire coesione al gruppo. La neo-accademia italiana ha adottato la stessa strategia: definire se stessa attraverso i propri nemici. E non sarebbe potuto essere diversamente. Oggi, infatti, non esiste più in Italia una convincente definizione di accademia e coloro che praticano l’Italianità dell’architettura italiana sono un manipolo di duri e puri, spesso in disaccordo tra loro ma concordi, per non perdere prestigio e potere, nel cercare di ampliarsi con nuove acquisizioni e alleanze che, però, hanno reso ancora più difficile definire il gruppo. Dire in positivo, quindi, quali siano le caratteristiche che accomunano gli architetti italiani, anche di qualità, che in qualche modo e per motivi diversi sono stati recentemente accettati dall’accademia, è però praticamente impossibile: cosa lega Cino Zucchi a Franco Purini, Stefano Boeri a Vittorio Gregotti, Cherubino Gambardella a Massimo Carmassi, Renzo Piano ad Adolfo Natalini, Marco Casamonti a Francesco Cellini? Poco e nulla. E allora è meglio individuare gli altri, gli estranei, i nemici: Zaha Hadid e Patrick Schumacher o lo studio Morphosis o Odile Decq. E, in Italia, Fuksas. Soprattutto Fuksas.
E, difatti, se volete infiammare una discussione o provocare il silenzio in un salotto buono di rito milanese, non vi resta che pronunciare il suo nome.
LE ACCUSE
Numerose le accuse. Io mi soffermerò su tre: costi e tempi, ossequiosità ai poteri forti della globalizzazione, gestualità artistoide.
Costi e tempi: Fuksas è stato letteralmente crocifisso per il costo, certo esorbitante, della Nuvola e per le lungaggini che hanno portato a sfiorare i venti anni (il concorso per la Nuvola risale al 1998). È innegabile che ci sia stato del marcio nella gestione dell’opera: si parla di un consuntivo di quasi 500 milioni a fronte di un preventivo di 100. Sicuramente in diversi ci hanno speculato e molto, ma, francamente, non vedo grandi differenze con altri cantieri italiani di opere pubbliche. Mentre l’alto costo al metro quadrato non mi sembra fuori linea con quelli di altre opere importanti realizzate da architetti famosi. Costano di meno gli edifici di Renzo Piano, di Peter Zumthor, di Herzog & de Meuron o di Alejandro Aravena? Stessi ragionamenti per i tempi. Anzi, direi che la durata sia un’attenuante: un’opera consegnata dopo venti anni dalla sua progettazione ne risente inevitabilmente. Eppure lo studio Fuksas ha dato prova di essere, con committenti idonei, veloce e affidabile: completando la fiera di Milano in diciotto mesi e, nei molti cantieri all’estero, non ha mai dato segnali di inefficienza. Il male, direi, non è Fuksas ma è l’Italia, una buona parte dell’Italia.
La seconda accusa riguarda l’autoreferenzialità di architetture realizzate solo per stupire e quindi per generare quel senso della meraviglia di cui si nutre il capitalismo finanziario. Purtroppo si ascoltano spesso queste sciocchezze. Sfugge che si tratta solo di un modo diverso di concepire l’architettura, attenta ai valori spaziali e non priva di una certa teatralità. Una lettura meno preconcetta farebbe emergere la grande lezione dell’architettura romana e barocca, l’attenzione allo spazio pubblico e, quindi, una dimensione sociale a volte assente in opere di architetti più ingessati, queste invece demagogicamente spacciate come politicamente progressiste. E, poi, non si capisce come architetture presentate quali avamposti della rivoluzione proletaria o della semplice democrazia, per esempio di Aldo Rossi o di Cino Zucchi o di Renzo Piano o di Peter Zumthor, non possano essere apprezzate e utilizzate lo stesso dai poteri forti della globalizzazione. Bullshit concettuale, insomma, che confonde, banalizzandole, architettura e politica.
FUKSAS E LA PITTURA
La terza accusa riguarda la componente artistoide e quindi anti-architettonica. Si accusa Fuksas di gesti arbitrari, come se gli altri architetti evitassero tutto ciò che non è perfettamente razionale. Proverei a questo punto a capovolgere la questione. E se Fuksas fosse guardato con sospetto anche per la sua formazione di pittore? Proprio perché in un periodo come questo, segnato dal masochismo e dall’autolesionismo percettivo, ci ricorda continuamente che l’architettura ha a che fare con l’arte? Non voglio difendere tutta la produzione dell’architetto romano. Ma ci sono pochi progettisti che in ogni loro opera hanno tenuto fermo, con tanta caparbietà, il punto: l’architettura è arte. Certo, l’arte la si può fare in tanti modi diversi, alla Nouvel, alla Herzog & de Meuron e anche alla Zumthor. Ma in Italia, dove troppo spesso si ama dichiarare che l’architettura non lo sia, salvo poi buttarsi a capofitto nella Metafisica più banale, spacciata invece come il prodotto della razionalità progettuale, lasciatemelo dire, l’opera che svolge Fuksas è più che di disturbo. È da perfetta pecora nera.
Luigi Prestinenza Puglisi
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