Architetti d’Italia. Vittorio Gregotti, l’anti empatico
Decimo appuntamento con la rubrica di Luigi Prestinenza Puglisi dedicata ai grandi architetti italiani. Stavolta è Vittorio Gregotti a finire sotto una lente di ingrandimento che mette in luce i limiti della sua pratica.
Avrei voluto iniziare la decima puntata, dedicata a Vittorio Gregotti, ricordando una sua intervista strappatagli dalle Iene. Dove, alla domanda se lui avesse mai voluto vivere nel famigerato complesso Zen di Palermo, di cui era stato il principale progettista, rispose candidamente: “Che c’entra? Sono un architetto”. O qualcosa del genere, perché sono andato a vedere nell’archivio Mediaset e non ho trovato più la clip. “Questo video” – c’era scritto – “non è disponibile per il tuo Paese”.
Non sono un amante della dietrologia e non mi azzardo a fare ipotesi. Il video può essere stato rimosso per mille ragioni e non necessariamente su pressione dell’intervistato che lo potrebbe aver giudicato inappropriato per la propria immagine pubblica.
Certo è che mai una intervista ha rappresentato così male la nostra categoria. Lo stesso Crozza, il grande fustigatore di noi architetti, non avrebbe potuto darci una visione più caricaturale di quella che Gregotti ha fornito di se stesso: andateci a vivere voi nei falansteri che progettiamo.
In realtà, si è trattato solo di una frase mal interpretata. Sono convinto che Gregotti abbia voluto semplicemente dire che la domanda non fosse pertinente. E sono sicuro che lui stesso andrebbe a vivere nei suoi edifici perché è proprio la logica da caserma della sua architettura che lo appassiona. Lo Zen, purtroppo, non è un episodio infelice di una carriera altrimenti brillante, ma è, a mio avviso, il distillato più puro della sua architettura. Se anche progettasse una villa hollywoodiana, la farebbe a forma di carcere.
Per capirne la filosofia, abbandonate la lettura degli illeggibili libri di Teoria che Gregotti sforna con cadenza annuale. E comprate un libricino autobiografico uscito nel 1996 per la Bollati Boringhieri, dal titolo Recinto di fabbrica. È il racconto della sua infanzia trascorsa nelle vicinanze della fabbrica di cui il padre era direttore e comproprietario. A formare Gregotti è il carattere austero e severo del genitore, la disciplina della produzione, l’ordine dello spazio, i rapporti rigidamente gerarchici anche se mitigati dal senso di rispetto che si ha verso i subordinati che compiono il loro dovere. Mio padre, racconta da qualche parte l’architetto novarese, una volta che doveva punirmi, aspettò il giorno successivo per darmi uno schiaffo perché la pena non va mai prodotta a caldo. E anche nel racconto mai una volta che figurino i sentimenti nel loro ribollire, o un momento di passione, se non mediato attraverso il filtro austero di un super io che nulla lascia all’emotività. Un perfetto esemplare, ci verrebbe da dire, di organismo a sangue freddo.
L’ANTI EMPATIA DI GREGOTTI
Ne emerge, esattamente come nell’intervista alle Iene, un personaggio antipatico cioè anti empatico. Che avrebbe interessato il Michel Foucault di Sorvegliare e punire, il quale avrebbe visto in lui un soggetto per il quale la libertà del corpo è un problema sostanziale perché concepisce la vita come una ordinata fabbrica-prigione i cui tempi sono scanditi dal suono delle sirene e dal laborioso rumore dei telai.
In questo senso Gregotti rappresenta lo spaccato di una generazione. Anche se si fa fatica a capire esattamente quale. Verrebbe da dire quella legata al mito borghese di una sinistra che ha sempre faticato a fare i conti con le fertili e ambigue contraddizioni della modernità. Vittorio Gregotti è del 1927 e quest’anno, il 10 agosto, compie novant’anni. Ha vissuto, sia pure da ragazzo, i tempi di Togliatti, dello stalinismo, della Guerra Fredda e della critica dell’ideologia.
L’osservazione vale sino a un certo punto. Foucault, che si è mosso verso tutt’altre direzioni, aprendo alla libertà universi inesplorati, era nato un anno prima, nel 1926, e, se vogliamo vedere le date di nascita di altri protagonisti delle vicende architettoniche italiane, molto meno ingessati, Bruno Zevi era del 1918 e Giancarlo de Carlo del 1919. Se poi il paragone lo tentiamo con Renzo Piano, che è di un decennio più giovane, 14 settembre 1937, ci accorgiamo che si sta parlando di un approccio appartenuto a un’altra epoca, geologicamente lontana.
Eppure Gregotti, questo intellettuale che, a giudicare dalla sua ideologia, sembra essere nato nel Pleistocene, è stato, ancora una decina di anni fa, uno degli architetti italiani più influenti e importanti. I suoi articoli appaiono sul Corriere della Sera, è intervistato con frequenza, lo si considera il punto di riferimento di una numerosa scuola architettonica. E, ancora oggi, ci sono giovani che rimpiangono la sua direzione di Casabella, che, ignorandola, affossò un’intera generazione dell’architettura italiana, e lo vorrebbero riesumare, magari rivalutando le sue opere teoriche giovanili, come Il territorio dell’architettura, in cui ancora l’autore si muoveva in direzione di una cauta apertura alla ricerca e allo sperimentalismo anche se, come accadeva agli intellettuali di sinistra di allora, sempre con il freno a mano tirato e un occhio, anzi due, al realismo, la parola magica che metteva insieme i sovietici, i comunisti del PCI e quelli di scuola francese.
LA RELIGIONE DEL POTERE
Gregotti, come tutti gli intellettuali di sinistra, ha fatto del potere la propria religione. È stato professore universitario; direttore di riviste e, per lungo tempo, di Casabella, la più gloriosa testata di architettura italiana; frequentatore di circoli anche di avanguardia – per esempio il gruppo 63 con Nanni Balestrini e Umberto Eco –; frequentatore dei CIAM; frequentatore dei salotti della buona borghesia innamorata della sinistra; fiancheggiatore, sia pure con le dovute distanze dell’intellettuale che così si trova ad avere sempre ragione, della politica.
Riferimento di tanti, soprattutto nell’accademia, non è mai stato un caposcuola particolarmente generoso. A differenza di personaggi quali per esempio Paolo Portoghesi, molto più affascinante, colto e non meno influente, non si è mai particolarmente speso per promuovere amici e allievi di talento. E così, mentre Portoghesi, anche attraverso la sua militanza socialista, proponeva cordate che valorizzassero il talento italiano e scriveva libri densi di elogi per colleghi, discepoli o personaggi apprezzati per la loro bravura, Gregotti, più vicino all’area del PCI, si è caratterizzato per un gioco solitario o poco più che tale.
Con Portoghesi, Gregotti condivide però il destino di essere – a parere di chi scrive – autore di opere mediocri.
Tra le tante realizzate è difficile selezionarne una buona: se lo Zen ricorda un carcere, infatti, non migliori sono la Bicocca o l’università di Arcavacata, le abitazioni popolari realizzate a Venezia, gli edifici per l’IBAN di Berlino. Come ad altri architetti dalla mano pesante – penso per esempio a Mario Botta, a Gae Aulenti e a Franco Purini –, gli manca il senso della leggerezza, la felicità del dettaglio, la ricchezza del materiale, la voluttà del corpo. Insomma riflette in pieno la sua anti empatia. Ho sempre avuto il sospetto che se piace agli accademici è perché gode di due caratteristiche: sembra rispecchiare un metodo – pazienza se è quello della catena di montaggio dei primi anni del Novecento – e non genera invidia e competizione. Zaha Hadid, piaccia o non piaccia, è inarrivabile, Gregotti no. Anzi, quando realizzi il tuo falansterio, ti fa sentire un suo pari, se non uno a lui superiore. Ed è infinitamente piacevole sentirsi superiori al proprio grande e insigne maestro.
UN DINOSAURO IN VIA DI ESTINZIONE
Scrittore contorto, prolisso e confuso, Vittorio Gregotti è autore di libri dai titoli ostici, che rasentano il ridicolo: quali L’architettura nell’epoca dell’incessante, che ricorda gli sturalavandini e i prodotti disgorganti. Sono sovente attacchi all’architettura contemporanea, vista come produttrice di composizioni generate da uno Star System che accetta supinamente lo spirito del tempo, cioè in ultima istanza quello della comunicazione di massa, del facile edonismo, dei miti pubblicitari e della novità a ogni costo.
I miti di Gregotti sono invece due: da un lato lo spirito severo e autoritario di Tadao Ando e dall’altro il rigore, meno autoritario ma non certo meno pervasivo, di Álvaro Siza.
In questo senso Gregotti non è solo il nemico delle architetture sghembe del decostruttivismo e roboanti del postdecostruttivismo ma anche l’anti Piano e l’anti De Lucchi, che si perdono nel gioco di conciliare tecnologia e artigianato, cadendo nella trappola dei poteri forti della globalizzazione che vogliono ingannarti mostrandoti che l’architettura può essere piacevole e umana esattamente come un telefonino di ultima generazione o come l’app per portarti a domicilio gli ortaggi a chilometro zero. In questa sua nostalgica purezza, dicevamo, Gregotti ci si presenta come un dinosauro in via di estinzione di un periodo terribile della nostra storia. E, proprio perché in via di estinzione, suscita in noi, che lo abbiamo sempre visto come il nemico del talento e il male dell’architettura italiana, una suadente nostalgia. In fondo anche l’epoca delle fabbriche, i cui tempi erano scanditi dal suono delle sirene, adesso che, per fortuna, la abbiamo alle spalle, ha nel ricordo un suo fascino e una sua grandezza.
– Luigi Prestinenza Puglisi
Architetti d’Italia #1 – Renzo Piano
Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
Architetti d’Italia#9 – Michele De Lucchi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati