Architettura contemporanea in Norvegia. Intervista allo studio U67
Nasjonalmuseet ‒ Arkitektur, Oslo ‒ fino al 17 novembre 2017. La mostra Et sted å være (A Place to Be) illustra lo stato dell’arte dell’architettura norvegese degli ultimi cinque anni. Abbiamo intervistato Angela Gigliotti e Fabio Gigone dello studio U67, italiani d’origine e danesi d’azione, exhibition designer e art director di questo progetto.
Lo scorso 8 giugno ha inaugurato la mostra Et sted å være (A Place to Be), a cura di Markus Richter, con l’art direction e l’allestimento dello studio U67 di Angela Gigliotti e Fabio Gigone. La sede è il Nasjonalmuseet – Arkitektur di Oslo, che ogni cinque anni invita un curatore a fare il punto sullo stato dell’architettura contemporanea norvegese. Quest’anno, in primo piano c’è la produzione architettonica che dal 2011 al 2016 è stata realizzata nel Paese da progettisti locali o internazionali, oppure da architetti norvegesi all’estero.
Il curatore ha selezionato 23 progetti, con l’obiettivo di lanciare delle domande aperte sul valore e l’interesse che può avere l’architettura norvegese oggi, cercando di delinearne i caratteri. Grande spazio di autonomia e di sperimentazione è stato lasciato all’allestimento della mostra che tenta di raccontarne i contenuti, interpretando ciascuna architettura attraverso il disegno e un’esperienza tattile del tutto inusuali.
L’INTERVISTA
L’allestimento si suddivide in quattro ambiti, ciascuno con un proprio dispositivo di racconto secondo il contenuto da comunicare. Ci raccontate qualcosa in più?
Nell’allestimento abbiamo deciso di dare autonomia ad alcuni modi con cui l’esperienza dell’architettura può essere trasmessa, perché né il progetto nella sua originalità né l’architettura stessa sono direttamente presenti. La prima parte della mostra è il Cloud, una passeggiata fra 81 immagini delle 23 architetture scelte, disposte lungo le due rampe di scale e balcone che circondano la sala d’ingresso del museo; l’idea era di concentrare ed esaurire subito l’esperienza visiva delle immagini, molte delle quali già pubblicate, per entrare gradualmente nel vivo della mostra.
Come è strutturata la mostra?
Nella sala troviamo la Gallery, che ne percorre il perimetro su due lati dove sono collocati dei modelli di studio delle ventitré architetture, disposti su plinti in acciaio di tre diverse altezze a seconda della dimensione del modello. Sulle due facciate in vetro opposte è collocato il Portolano, una vetrofania di 29 x 2,8 metri che rappresenta Fjordbyen, lo sviluppo urbano ancora in corso del waterfront di Oslo. La vista in prospettiva al tratto nero mostra la costa dalla città verso il mare; le principali architetture costruite sono qui rappresentate in assonometria. Il cuore della mostra è, infine, il Prisma, una struttura formata da 16 stanze ‒ di 2,30 x 2,30 metri e 4 di 2,30 x 4,60 metri, alte 3,30 metri ‒, ricoperte da feltro naturale inciso al laser, con 133 rappresentazioni autonome dei ventitré ventitré progetti. La maggior parte dei disegni sono proiezioni assonometriche, prospettiche ed esplosi proiettati sugli angoli delle stanze. La proiezione è stata corretta otticamente per permetterne la giusta visualizzazione dal centro della stanza.
Il tema della rappresentazione dell’architettura nelle mostre è attualissimo. Come e quanto è difficile interpretare il racconto del curatore in forma fisica ed espositiva?
La difficoltà sta nel dare forma a un progetto di spazio partendo da intenzioni espresse sulla carta e quindi giustificare l’autonomia del progetto stesso rispetto a un racconto che spesso è fatto solo di parole o immagini.
In questa mostra abbiamo lavorato con l’obiettivo di creare empatia tra il visitatore e il progetto attraverso un percorso immersivo che parte dalla bidimensionalità delle immagini (Cloud), raggiunge la tridimensionalità dei modelli di studio (Gallery) per finire nell’astrazione delle incisioni al laser nel prisma in feltro. Questa scelta è stata fatta per fornire, anche ai non addetti ai lavori, un percorso graduale nella riconoscibilità dell’oggetto rappresentato.
Alla fine, però, abbiamo visto gli architetti posare davanti alle immagini e i non addetti entusiasti dell’esperienza all’interno del prisma in feltro!
Com’è avvenuta la scelta di sperimentare proprio questo materiale (il feltro) e una tecnica, l’incisione su tessuto, del tutto inusuali per una mostra di architettura?
L’idea era di avere uno spazio dedicato a ogni progetto, nel quale il visitatore potesse avere un’esperienza intima col progetto stesso. Questo per venire incontro alla particolare cultura di relazione scandinava.
L’uso di disegni simili a graffiti incisi su una superficie omogenea è un rimando a certe esperienze di percezione dilatate, come per i bassorilievi negli spazi sacri o l’arte parietale, dove le particolari condizioni di luce richiedono all’occhio un certo tempo prima di poter percepire l’opera. L’uso del feltro e di questa particolare tecnica ci ha permesso di elevare la rappresentazione da un uso che spesso è, forse, troppo consumistico.
Il tema del (ri)disegno è uno strumento sempre più presente nelle mostre di architettura, che, accanto al materiale fotografico, agevola il racconto e ne esprime il lato interpretativo. In questa mostra, infatti, la maggior parte dello spazio è dedicato proprio all’interpretazione delle opere esposte. Potreste parlarci di questo aspetto?
La scelta di interpretare tutti i progetti tramite uno strumento comune quale il disegno nasce anche dal fatto che, fin dall’inizio, ci siamo resi conto di non avere materiali “originali” da esporre, fatti salvi i modelli di studio. Il materiale a disposizione è sempre un “altrove”, specialmente oggi, dove il progetto prodotto negli studi di architettura è più spesso un mezzo al servizio della produzione fisica piuttosto che una testimonianza del processo di produzione intellettuale. Bisognava quindi interpretare e raccontare noi l’architettura.
Quali sono le influenze del mondo nordico nella vostra ricerca e nel vostro lavoro?
In questi ultimi anni abbiamo rafforzato una ricerca nei valori del progetto come presupposto stesso dell’architettura, una reazione al progetto visto solo come mezzo per produrre. Di stampo più scandinavo, invece, è la consapevolezza dell’importanza degli aspetti relazionali specifici di una cultura nell’interpretazione dell’architettura stessa, dai dettagli apparentemente meno significativi ai fenomeni urbani di scala maggiore.
‒ Simona Galateo
Oslo // fino al19 novembre 2017
Et sted å være – A place to be
NASJONALMUSEET – ARKITEKTUR
7014 St. Olavs plass
www.nasjonalmuseet.no/no/besok_oss/visningssteder/nasjonalmuseet__arkitektur/www.office-u67.net
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