Barriere, terrorismo e spazio pubblico. L’opinione di Antonio Ottomanelli
L’attualissimo dibattito attorno all’identità e alla forma da attribuire alle barriere antiterroristiche comparse in molte città italiane sta animando il web, la carta stampata e i social network. Qui prende la parola Antonio Ottomanelli, architetto di formazione e fotografo di professione, che sottolinea il rischio di svuotare lo spazio pubblico della sua componente aggregativa e foriera di innovazione, mettendo in atto un vero e proprio sistema di carcerazione dei luoghi.
Il 23 agosto l’architetto Stefano Boeri pubblica sulla propria pagina Facebook un articolo già apparso sul sito web del Corriere della Sera, così intitolato: Fioriere contro il terrore, i primi sì da Bari a Firenze. L’idea di Boeri appoggiata dall’Anci: «Serve fantasia».
Dopo l’attentato terroristico che ha colpito Barcellona il 17 agosto, si riaccende, dunque, il dibattito sulla sicurezza delle città europee e le relative strategie di difesa. In questo clima si inserisce infatti la proposta di Boeri riferita nell’articolo appena citato e che consiste nella sostituzione dei New Jersey ‒ già presenti negli spazi pubblici dei principali centri urbani italiani ed esteri, e la cui corretta definizione è jersey barrier ‒ con “strutture che possano offrire non solo prevenzione, ma anche qualità estetica e ambientale”.
“Affollare migliaia di piazze di Jersey è un cedimento alla pretesa globalizzante di un fenomeno atroce ma per nostra fortuna ancora molto limitato”. Nasce da qui l’idea di Boeri di “affidare a elementi vitali e utili come gli alberi anche una efficace funzione di prevenzione”, aggiungendo che “il simbolismo incarnato in un albero rappresenta un eccellente modo per contrapporsi ai fetidi simboli dei terroristi.”
Sono intervenuto sul tema con una posizione critica nei confronti della proposta in questione e, soprattutto, nei confronti dell’istantaneo interesse mostrato da alcune amministrazioni italiane. Ho provocato un dibatto online invitando diversi utenti, professionisti, conoscenti e colleghi a esprimere una posizione a riguardo, tentando un ulteriore approfondimento. Ma, come spesso accade, si arriva a un punto in cui i commenti si spostano da una posizione dialogante a una vera e propria collezione di personalismi.
Partiamo dalla mia posizione: non sono a favore della militarizzazione degli spazi urbani. Il rischio di attentati terroristici, se analizzato sulla base dei numeri, non può giustificare posizioni differenti. Tutt’ora il terrorismo rappresenta l’ultima delle possibili cause di morte per i cittadini europei.
IL CASO DI BAGHDAD
Ho lavorato lungamente nei Paesi arabi, in particolare in Afghanistan e Iraq. A Baghdad, nella red-zone, i blastwalls e le jersey barriers vengono installati per proteggere gli spazi a maggiore affollamento da possibili attacchi terroristici. Durante i miei soggiorni a Baghdad, avvenivano in media dalle tre alle cinque esplosioni, per lo più autobombe. La presenza di jersey e muri anti-esplosione non ha mai fermato gli attacchi, né ha sufficientemente difeso la popolazione. La red-zone, dove vive la maggioranza della popolazione, è sempre stata il luogo privilegiato di queste carneficine. Diversamente la green-zone, dove hanno sede i palazzi del potere e dove il potere ha casa, è sempre stata protetta e ai suoi pochi residenti è sempre stata garantita, all’interno, piena libertà di movimento.
Nella red-zone, dopo ogni attacco terroristico la città cambia forma, gli spazi pubblici si rigenerano con altre coordinate, in luoghi diversi della città; avviene in maniera istantanea. Così anche i blastwalls e i jersey vengono riposizionati; cambiando ogni volta il modo di muoversi nella città, condizionando ogni giorno la libertà di movimento e il suo esercizio memoriale: in un incessante esercizio di carcerazione delle masse e dei luoghi in cui il pubblico esprime il suo quotidiano.
La città cambia ogni giorno. Questo è un dato estremamente importante, perché impedisce agli abitanti di riconoscersi e riconoscere il luogo in cui vivono; rende impossibile qualsiasi sentimento resiliente; disorienta e ogni giorno mina la realizzazione di un tessuto di relazioni sociali stabile, permanente.
A Baghdad, prima ancora di piazza Tahrir, un movimento formato da scrittori, artisti, giornalisti e attivisti della società civile ha raccolto diverse migliaia di firme per un appello alle autorità contro le forme della sicurezza selvaggia, che minacciano l’identità storica e culturale irachena.
La promotrice di quest’iniziativa si chiama Shuruq e ha 52 anni. Parla del “cancro architettonico”. I muri di cemento, i blastwalls che dividono e nascondono la città. Queste barriere hanno un effetto psicologico sugli abitanti: “Voglio far sapere alle persone che loro e i loro figli vivono in una grande prigione di cemento”.
Costruire una città vuol dire, prima di tutto, fissare nel territorio un sistema di significati, non simboli; la memoria è quella forma di linguaggio che usa questi significati. Nascondere brani di città, seppur in nome di una presunta sicurezza, vuol dire accettare e promuovere operazioni di smemoramento collettivo.
IL TERRORISMO SECONDO I MEDIA
Il movimento usa il linguaggio della memoria, per questo è indispensabile tutelare la memoria per garantire la totale e imprevedibile libertà di movimento; la memoria insieme al movimento sono la sostanza che rende possibile il recupero e la difesa dei territori.
Quindi, mentre a Baghdad, dove solo nel mese di agosto gli attacchi terroristici e gli scontri a fuoco hanno provocato tra i civili 125 vittime e 188 feriti (2795, considerando l’intero anno in corso), si dibatte sulla possibile eliminazione dei sistemi di sicurezza urbani; in Italia, e più in generale in Europa, dove il terrorismo islamico fra Londra, Stoccolma, Manchester e Barcellona ha provocato 55 vittime, siamo disposti alla rinuncia di enormi spazi di libertà e privacy. In Italia siamo disposti ad accettare forme e strategie di controllo capillare e massivo, per difenderci da una rete criminale che si dimostra assolutamente minore, e ancora più relativa se paragonata a strutture criminali resilienti come la ndrangheta.
Come afferma la ricercatrice italiana all’università dell’Essex, Margherita Belgioioso, siamo di fronte a una sovraesposizione mediatica degli attacchi di matrice islamista rispetto a quelli compiuti da gruppi autoctoni. Gli attentati jihadisti, infatti, rappresentano meno del 4% delle azioni sul suolo europeo.
Inoltre, non possiamo affrontare il rischio di attacchi terroristici confondendo tra le sue cause, i suoi strumenti e incubatori, il fenomeno migratorio. Dal 2004 a oggi, in un solo caso l’autore dell’attentato a Berlino, Amri Anis, era un migrante illegale, la cui radicalizzazione ‒ secondo le indagini ‒ è avvenuta proprio nelle carceri siciliane. Negli altri casi sono singoli nati in Europa, o gruppi formati da cittadini europei e immigrati regolari.
Quello che mi spaventa di più, semplificando, è l’immediata e pigra accettazione di interventi di militarizzazione e controllo all’interno delle nostre città, senza che questa scelta venga considerata e contestualizzata con cura. Anche la proposta di Boeri nasce, incredibilmente, da questa immediata e cieca accettazione. Questa omologazione e questa rassegnazione, riducono quindi lo sforzo culturale e politico di architetti, governatori e pubblico a una riflessione di ordine estetico e di decoro urbano, con un certo gusto ambientalista e green oggi particolarmente in voga.
CONTRO LO SMEMBRAMENTO IDENTITARIO
Mi rifiuto, qui, di rispondere a chi sostiene che gli alberi usati come jersey faranno le nostre città finalmente più verdi. Il verde è un sistema complesso, non solo vegetale, il verde è un ecosistema proprio come lo spazio pubblico, e non può essere progettato ma reso possibile. Il verde non può essere confuso con piantine che non hanno valore nemmeno a livello clorofilliano. In ultima analisi, è davvero assurdo ritrovarsi costretti a riconoscere al terrorismo islamico il merito di rendere più verdi le nostre città.
L’immediata e serena approvazione della proposta da parte di svariate amministrazioni comunali è l’immagine di una classe politica impreparata e superficiale. Incapace di inquadrare le reali tensioni in atto sul territorio. Una classe dirigente che riesce a fingersi geniale, ovvero dotata di “fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”, adottando idee che solleticano le debolezze della popolazione più moscia e volubile.
Proprio il caso di Amri Anis dovrebbe forzare una riflessione molto più profonda sulla reale condizione della crisi umanitaria, culturale e identitaria del nostro continente; una crisi che ne definisce la sua immagine contemporanea. Senza semplificare il tutto a una distinzione borghese tra periferia e centro. Oggi è urgente riflettere su come operare una inversione di marcia a un procedimento di smembramento identitario in atto. E per identità intendo la conoscenza delle forze economiche e politiche che determinano una particolare condizione sociale del singolo individuo in relazione alla comunità. Questo grado di conoscenza è strettamente legato al rapporto esistente tra le strategie di controllo applicate allo spazio pubblico in nome di una presunta sicurezza pubblica e le spinte individuali e autonome per la ricerca di gradi sempre più alti di libertà ed emancipazione. Lo spazio pubblico è il luogo di questo conflitto. Questo conflitto può manifestarsi in senso elevato, come forma d’arte o conflitto produttivo; un conflitto in cui la forza non viene soppressa ma sublimata. Questo avviene quando si esprime in comunità educate all’ascolto e non alla prevaricazione. Quando, al contrario, il conflitto viene strumentalizzato, esiliato e intrappolato, cambia natura e diventa violenza.
DIFENDERE LO SPAZIO PUBBLICO
È fortemente urgente quindi una rivoluzione dei significati che compongono la città. Fioriere dotate di panchine e verde, inserite nel paesaggio urbano secondo i principi e le strategie di sicurezza pubblica, sono da considerarsi esclusivamente una variazione tipologica del jersey, nient’altro che quello. La domanda che dobbiamo porci è: chi o cosa difendono? Oppure, chi o cosa vogliono recintare?
Per rispondere a questa domanda, è necessaria una preventiva condivisione del significato del termine spazio pubblico. I caratteri che distinguono un paesaggio o un’opera, rendendola spazio pubblico e bene comune, sono la trasparenza e l’imprevedibilità. Questi caratteri sono complementari e inscindibili. L’assenza di uno di questi due caratteri ci impedisce di definire uno spazio come pubblico, non permette la sua realizzazione come bene comune.
Con imprevedibilità si intende la possibilità che avvengano cambiamenti improvvisi e profondi della forma fisica e culturale, della portata simbolica e memoriale, della condizione identitaria del luogo in cui queste trasformazioni si manifestano. Lo spazio pubblico è sempre una infrastruttura di rivoluzione.
Una infrastruttura trasparente nel momento in cui nasce da una relazione profonda e chiara con il territorio in cui si manifesta, cresce come espressione di responsabilità condivise e matura come ideale e dispositivo di emancipazione.
In questo caso, la rivoluzione è innovazione.
Lo spazio pubblico, se è tale, detona innovazione facendo dell’imprevedibilità il carattere genetliaco delle sue pratiche; trasforma il paesaggio rendendolo ecumene di comunità innovate vive ed esemplari. Dà ai segni che compongono le città, le relazioni, e le condizioni sociali imprevedibili significati e ruoli, offrendo inaspettati gradi di rivoluzione emancipatoria. Questa rivoluzione per essere provvida non può che nascere da una complessa pratica di ascolto, da una capacità di dialogo e comprensione.
In questo senso la rivoluzione è sempre e primariamente una rivoluzione dello sguardo. Cambiamo gli sguardi per rivoltare la convinzione triviale che abbiamo dei significati delle città. Rivoltare i luoghi a partire dai significati che essi conservano. Una rivolta innanzitutto semiotica. Lo spazio comune è quindi, sempre, un’operazione semiotica. In questo senso non si può pensare né progettare lo spazio pubblico, il bene comune, con gli strumenti canonici del progetto dello spazio urbano. Non può essere tutelato con strumenti e dispositivi militari, o dell’architettura della sicurezza; può essere, al contrario, promosso e difeso facendo comunità, ricostruendo identità.
‒ Antonio Ottomanelli
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