Architetti d’Italia. Guido Canali, il genio isolato
Nuovo appuntamento con i protagonisti dell’architettura italiana raccontati da Luigi Prestinenza Puglisi. Stavolta tocca a Guido Canali, un vero e proprio talento della progettazione, allergico alle dinamiche dello star system.
Guido Canali è nato nel 1935: due anni prima di Renzo Piano (1937) e quattro dopo Aldo Rossi (1931).
Fa parte quindi della generazione dei maestri attivi dagli Anni Sessanta e Settanta, anche se maestro lo è sui generis: gode di immenso prestigio ma fra una ristretta cerchia di estimatori. Della sua opera si sa relativamente poco. Provate a cercare notizie su Internet o in libreria. Non è facile perché non è esposto sui media e non ha un seguito di discepoli fotocopia che si riconoscono nella sua tendenza.
Eppure Canali è bravo, anzi il più bravo, come nella generazione immediatamente precedente lo furono Leonardo Ricci e Luigi Pellegrin, oggi quasi dimenticati.
Cosa vuol dire essere il più bravo? Guardate una classe di bambini durante l’ora di educazione artistica. Ce ne saranno un paio che realizzeranno disegni fantasiosi e colorati, senza pentimenti. Altri, si vede già da come impugnano le matite, che non hanno facilità. Procedono cancellando e ingarbugliando. Sono pesanti. Non hanno il senso della forma.
Non è detto che i più bravi diventino artisti o architetti. La facilità può diventare un ostacolo, tramutandosi in routine e formalismo. Mentre i senza talento possono emendarsi sopperendo con l’intelligenza, anche se il più delle volte si tratta di idee cervellotiche contrabbandate come teorie. Nessuno mi toglie dalla testa che tanti personaggi che godono di buona critica abbiano sopperito alla loro mano nera con giustificazioni teoriche e con la abilità nel gestire i rapporti con i media, le riviste e il potere.
Se oggi si sfoglia un manuale di storia dell’architettura contemporanea è molto più facile trovare questi ultimi. E così vedere collocati, accanto a Renzo Piano e Aldo Rossi che bravi lo sono, disastri quali Franco Purini, Vittorio Gregotti, Gae Aulenti, Mario Botta invece che, appunto un Leonardo Ricci, un Luigi Pellegrin, un Guido Canali, infinitamente più dotati. E, con l’aggravante rispetto a Ricci o Pellegrin, autori di opere discutibili e a volte intensamente disturbanti, che Guido Canali ha al suo attivo un’opera più bella dell’altra, perché in nome della qualità ha sempre rifuggito ogni pericolosa deriva (ma questo è anche il suo limite).
DALL’EDILIZIA AI MUSEI
Per avvicinarsi a Guido Canali basta osservare un paio di particolari: per esempio di un progetto edilizio e di un allestimento museale.
Il progetto è il Parco Vittoria nell’area Portello a Milano. Si tratta di un imponente insediamento speculativo che correrebbe il rischio di apparire una colata di cemento. Canali frammenta il corpo edilizio in strisce lavorando sulla verticale invece che sull’orizzontale. E ha l’idea di esasperare l’altezza, con sottili portali che svettano inquadrando il cielo e slanciano i corpi di fabbrica, che così diventano torri. Un’idea semplice ed efficace che riesce a risolvere poeticamente una situazione altrimenti prosaica e banale.
Il secondo particolare è la vetrina del museo delle Statue Stele a Pontremoli dove si espongono le armi di un guerriero. Lancia, elmo e altri accessori sono come sospesi nell’aria secondo un sistema di relazioni che riproduce la loro effettiva posizione durante l’uso. Come se fossero indossati da chi però non appare. Il risultato è fortemente evocativo, permette di osservare i singoli oggetti e nello stesso tempo li contestualizza, evitando la presenza pacchiana ed eccessivamente didattica di un manichino.
In tutti e due i casi, nella scala edilizia delle abitazioni e in quella dell’allestimento del museo, le parole che vengono in mente sono: suggestione, fascino, visione, rivelazione.
Ci rammentano due architetti, tra loro molto diversi, che Guido Canali riesce a sintetizzare in maniera originale: Mies van der Rohe e Carlo Scarpa.
Da Mies van der Rohe, Canali prende il quasi nulla e la strategia del lavoro per piani che consente di aprire i corpi edilizi allo spazio circostante. Siano questi il cielo o la natura rispetto alla quale gli edifici si pongono in un intenso rapporto, quasi in relazione osmotica. Ne capta infine la leggerezza e difatti il materiale strutturale da lui preferito è il ferro con sezioni sottili e profili allungati in grado di sfidare il peso e la legge di gravità.
Da Carlo Scarpa Canali assimila l’interesse per la materia e una visione del dettaglio inteso come nodo visivo delle opere, momento in cui si risolvono in unità le diversità di materiali e direzioni. Non quindi uno spazio omogeneo ma ritmato, denso, composto per continui scorci prospettici.
In teoria, l’esigenza del quasi nulla e la poesia della materia dovrebbero essere in contraddizione tra loro. In realtà è questo abilissimo lavorare, rispettando entrambe le polarità, che genera la magia. Si ha sempre la sensazione di architetture o allestimenti che svaniscono e che, nello stesso tempo, hanno una loro concreta presenza. Di una tecnologia asciutta e essenziale ma ricca e visionaria. Di una architettura artificiale e costruita e insieme aperta alla natura.
Non chiedete a Canali di spiegare il fascino delle sue opere. Vi deluderà certamente. Vi parlerà di questioni molto concrete, di come abbia risolto un problema tecnico, delle esigenze degli utenti, della qualità di un materiale. La poesia, se c’è, si spiega da sé, non può essere oggetto di trattazione.
LONTANO DAI RIFLETTORI
Canali si auto pubblicizza malissimo, o forse nel migliore dei modi, cioè tacendo, in un’epoca che ha fatto della comunicazione il proprio feticcio.
Non ha neanche un sito web. Mi sono informato e mi hanno risposto che è in corso di costruzione, poi hanno aggiunto che è da un bel po’ che lo è.
Ho provato a spiegarne le ragioni. La prima me la ha suggerita Pierluigi Molteni: “Penso che Canali non sia interessato alla logica del web visto che è una sorta di frate trappista la cui preghiera non è dedicata a una divinità ma a una sua creatura. Lui vuole la perfezione, che per definizione è irraggiungibile. Con un committente a un certo punto devi per forza, obtorto collo, fermarti. Con il tuo sito web puoi andare avanti all’infinito”.
La seconda è più semplice: un sito web è una auto rappresentazione, una scrittura di sé che presuppone una narrazione e Canali sfugge dai racconti. In questo senso è pienamente un architetto che evita le logiche, giustificatorie e metaforiche, dello star system. Non come pretenderebbero Renzo Piano o Michele De Lucchi, che a parole le aborrono ma poi le logiche della comunicazione le praticano secondo tutte le leggi più aggiornate della nostra società digitale, ma come gli architetti che si trovano a loro agio solo con la matita in mano.
Tra i suoi allievi conosco abbastanza bene Paolo Simonetti e il duo Iotti e Pavarani, tutti eccellenti architetti, e non faccio fatica a captare dai loro discorsi un’aria di severo lavoro comune indirizzato dalla personalità di Canali, che è quella che si deve respirare nello studio. Qualcuno, sapendo che dovevo scrivere questo pezzo, mi ha fatto anche il nome di Claudio Bernardi, ma, non conoscendolo, non mi azzardo a parlarne. D’altra parte so che sono diversi i bravi progettisti usciti da Parma. A testimonianza che le migliori scuole italiane non sono quelle che licenziano le università.
Se Canali rifugge dalla pubblicità, almeno così come la intende la nostra società della comunicazione, non per questo non è abile nel gestire la sua fama di genio isolato e di creatore di progetti in cui l’abitare e il lavorare si incontrano con la poesia del vivere, in cui si celebra la sintesi tra spazio naturale e artificiale. Sua è l’idea della Fabbrica giardino, messa a punto con Prada, Pinko e Smeg. Sono edifici che, diversamente dai capannoni industriali, non si chiudono su se stessi ma si aprono al paesaggio attraverso l’accorgimento della scomposizione per piani. Ecco come Prada racconta l’operazione: “Risarcire un territorio degradato e mitigare l’impatto paesaggistico di ciò che si vuole costruire, sono i verbi che raccontano l’impresa condotta dal Gruppo Prada e dall’architetto Guido Canali. Per anni con tenacia, rigore e pazienza artigianale si conquistano terreni, si progetta, si costruisce, si piantano alberi. Le attività si sovrappongono e si stratificano: il progetto si affina mentre l’edificio si definisce. L’architetto è mastro carpentiere, il cantiere è il luogo della messa a punto. Il verde è l’ossessione prima del progetto, il fine ultimo della costruzione”. Non si poteva immaginare una retorica più devastante che trasforma il povero Canali nel testimonial televisivo di un prodotto di consumo (biscotti fatti nel mulino? Deodoranti ecologicamente testati? Amari che raccontano avventure?). Segno che, alla fine, questa civiltà brucia attraverso la pochezza delle parole anche quanto c’è ancora di autentico. Purtroppo dalla retorica del buon artigiano, come a suo tempo da quella del buon selvaggio, non è dato sottrarsi.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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