Al via la Biennale d’Architecture d’Orléans. Parola a Luca Galofaro
Edizione d’esordio per la Biennale d’Architecture d’Orléans. Un percorso sostenuto dal Centre d’Orléans ‒ Fonds Régional d’Art Contemporain, nell’ottica di un dialogo fra la memoria e le opere presenti nella raccolta.
Dopo la presentazione in anteprima al MAXXI di Roma lo scorso giugno si alza il sipario sulla prima edizione della Biennale d’Architecture di Orlèans: sei mesi di esposizioni e simposi in giro per la citt‡ e la regione promossi dal Frac Centre d’Orléans ‒ Fonds Régional d’Art Contemporain. Un incontro fra la memoria delle opere nella sua collezione e quelle in divenire dei 45 architetti invitati, con cui l’istituzione francese riafferma il proprio ruolo di riferimento per l’innovazione e la sperimentazione nella cultura progettuale internazionale. A poche ore dall’apertura, abbiamo incontrato Luca Galofaro, co-curatore della manifestazione con il direttore del Frac Centre Abdelkader Damani.
Dopo otto fortunate edizioni, il programma di incontri ArchiLab viene sostituito dalla Biennale. Quali sono le ragioni di questo cambiamento?
Cambiano i tempi e di conseguenza anche la formula per raccontarli. ArchiLab era un laboratorio pensato dal Frac Centre per mettere in rete architetti che facevano ricerca e sperimentazione attraverso il progetto di architettura e attorno al quale ha preso forma la collezione del museo. Nel 2013 è stata poi inaugurata la nuova sede Les Turbolences progettata da Jakob+MacFarlane. Oggi, attraverso la biennale, il Frac e la sua collezione non solo si aprono alla città e alla regione, ma soprattutto entrano in dialogo con il contemporaneo.
Marcher dans le rêve d’un autre / Camminare nel sogno di un altro è l’evocativo titolo che avete scelto per questa prima edizione. Ce lo puoi spiegare?
Il camminare è l’atteggiamento del vivere più elementare, un’azione che può anche trasformarsi in un puro atto mentale: il sogno. Nel sogno avviene l’incontro metaforico con l’altro e si forma uno spazio di relazione, un luogo che viviamo realmente attraverso la nostra memoria. L’architettura non è altro che l’insieme di questi luoghi. E in questa Biennale cerchiamo di raccontarli.
In che modo?
Marcher dans le rêve d’un autre è “una biennale di collezioni” che non presenta l’architettura in modo tradizionale, attraverso oggetti finiti, gli edifici. Non vogliamo infatti raccontare il risultato del processo di costruzione, ma il suo inizio. Perché, come scriveva Ettore Sottsass, “la forma dell’architettura non è altro che l’invenzione dello spazio”.
La Biennale dà voce a un gruppo di autori diverso per età, provenienza geografica, pratiche e linguaggi espressivi. Secondo quale criterio avete selezionato i progetti?
Con il passare degli anni ArchiLab aveva in parte perso la sua originaria vocazione plurale: dopo aver messo a sistema per anni tanti architetti che indagavano linguaggi diversi, nell’ultima edizione l’unica sperimentazione possibile sembrava essere quella del digitale. Noi abbiamo voluto prendere le distanze da questa omogeneità, proponendo una miscela di espressioni, una sovrapposizione di linguaggi, continuamente alterata dalla discontinuità. In un certo senso abbiamo voluto creare una geografia disarmonica, non fondata sulle analogie ma sui legami tra differenti forme di pensiero.
Ad esempio?
Prendiamo i progetti di José Miguel de Prada Poole, Minimaforms e Haus-Rucker-Co: appartengono a tempi e realtà diverse, sono costruiti su principi differenti. Eppure le loro epoche si confrontano, instaurano dialoghi intergenerazionali, svelando molti punti in comune al di là delle somiglianze formali.
Questo dialogo tra gli architetti e gli artisti nella collezione del Frac e quelli invitati prende in mostra la forma di un Atlante.
Nella sua definizione di Atlante, a cui noi facciamo riferimento, Georges Didi-Huberman non è interessato alla singola immagine, ma sempre alle immagini come gruppo e al significato che queste assumono una volta montate una accanto all’altra. L’Atlante è dunque una forma visuale di conoscenza: un archivio infinito che assume significati sempre diversi.
Non c’è però il rischio che in particolare i non addetti ai lavori si perdano? Attraversando la mostra ognuno ha la possibilità di costruire la sua personale visione. Il visitatore non potrà quindi perdersi ma cercherà invece la sua forma d’interpretazione del nostro racconto. Attraverso l’atlante non vogliamo infatti fornire risposte, ma creare uno spazio di relazione. Marcher dans le rêve d’un autre va guardata con lentezza. Guardare è una scelta, e oggi più che mai è importante saperlo fare: non guardiamo mai una cosa, ma il rapporto tra noi e le cose.
In questa biennale la storia ricopre un ruolo centrale. Pensando alla collezione di progetti utopici e architetture d’avanguardia del Frac, sembra quanto mai attuale l’interrogativo di Georges Didi-Huberman: “È possibile essere rivoluzionari essendo anacronisti?”.
Non penso sia necessario essere rivoluzionari. La contemporaneità è una singolare relazione col proprio tempo: cerca di esserne parte, ma osservandolo comunque da una certa distanza, attraverso una sfasatura e un anacronismo. L’anacronismo è una forma di pensiero, in cui l’immagine diventa il centro di una riflessione sul tempo. L’intrusione di un’epoca in un’altra rende possibile una riduzione della distanza tra oggetti e spazi diversi: frammenti e immagini codificate perdono il loro status di corpo monumentale e di fonte documentaria, acquistando altri valori e significati. Quando siamo di fronte all’immagine cerchiamo quindi un tempo plurale, o meglio, un montaggio di temporalità sfasate: è proprio quello che sostiene Didi-Huberman, quando dice che l’immagine ha spesso più memoria e avvenire di chi guarda.
Con otto location in città, quattro in altrettante località della Valle della Loira e sei simposi internazionali, la biennale sembra presentare il Frac Centre come luogo di produzione.
Esattamente. La biennale mette a sistema diversi luoghi del territorio e mostre: all’esposizione principale si affiancano infatti due monografiche, una dedicata a Guy Rottier, l’altra a Patrick Bouchain. Ma non solo. La lista degli architetti partecipanti non è chiusa: lungo i sei mesi di apertura entreranno a far parte dell’esposizione altri progetti. Per questo abbiamo previsto la pubblicazione di due cataloghi, uno ad apertura e uno a conclusione della mostra. Fanno anch’essi parte del progetto del Frac Centre di considerare le mostre come spazi di dialogo e sperimentazione.
A proposito del catalogo di chiusura, ci puoi già anticipare qualcosa?
Non mi piacciono le anticipazioni: oggi tutto si brucia in fretta, non è ancora uscito il primo catalogo che subito al pubblico interessa chi sarà nel secondo! Ti posso però dire che la scrittura sarà protagonista: una scrittura narrativa, che si confronterà con le architetture in mostra. Cercheremo di raccontarle da punti di vista molto diversi tra loro.
Possiamo quindi leggere questa Biennale come un manifesto programmatico per il futuro del Frac Centre? In quest’ottica, quali saranno i prossimi passi?
Marcher dans le rêve d’un autre è proprio l’inizio di un percorso, il primo atto di una ricerca che si svilupperà nei prossimi anni attraverso altre mostre, la seconda edizione della biennale e un continuo dialogo con scuole di architettura internazionali. Perché secondo noi la scuola è il luogo della sperimentazione, non formale ma metodologica.
‒ Marta Atzeni
Orléans // dal 13 ottobre 2017 al 1° aprile 2018
Marcher dans le rêve d’un autre
SEDI VARIE
www.frac-centre.fr
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