Architetti d’Italia. Umberto Riva, l’anti-minimalista
Appuntamento numero 23 con la saga dedicata agli architetti italiani da Luigi Prestinenza Puglisi. Stavolta il protagonista è Umberto Riva, ingiustamente trascurato e ritenuto esclusivamente un progettista di interni.
Tra gli architetti italiani trascurati vi è Umberto Riva. Nato nel 1928, è uno dei più dotati progettisti della sua generazione, la stessa di Luigi Pellegrin (1925), Carlo Aymonino (1926), Vittorio Gregotti (1927) e Aldo Rossi (1931). Nonostante abbia realizzato numerose e impegnative opere edilizie, Riva è visto come un progettista di ville, di interni, di appartamenti o di allestimenti, e relegato a una categoria da sempre giudicata minore. Condividendo così una sorte da outsider simile a quella toccata, per ragioni in parte diverse, a un altro bravissimo, Guido Canali, di sette anni più giovane e, quindi, della generazione appena successiva: quella di Renzo Piano (1937) e di Mario Bellini (1935).
Con Guido Canali, Umberto Riva condivide i maestri. Sono i due poeti che l’Italia della ricostruzione ha avuto: Franco Albini e Carlo Scarpa. Ma, mentre Canali ha preferito il primo, pur senza dimenticare il secondo, Umberto Riva ha optato decisamente per Scarpa.
In un suo scritto autobiografico racconta che, a un certo punto della formazione, incontra il maestro veneziano e il magistero di Albini gli sembra superato: troppo attento allo stile, troppo in linea con gli ideali di eleganza della grande borghesia ambrosiana. Scarpa lo conquista perché – afferma Riva ‒ riesce a generare una spazialità intensa e sofferta. Qualsiasi commentatore oggi sarebbe perplesso davanti a una lettura così netta. Che evita di scorgere quanto di estetizzante, sia pur nel significato migliore del termine, vi sia nell’opera del maestro veneziano. Certo è che questa lettura permette a Riva di captare il nucleo più vivo della lezione, evitandogli il pericolo, frequente negli emuli, anche i più dotati, di perdersi in dettagli eccessivamente disegnati e con la pretesa di essere ricercati. Quei terribili dettagli che ancora capita di vedere, soprattutto in area veneta, in banche, gioiellerie, hotel di lusso.
Per capire cosa, invece, Umberto Riva apprenda da Carlo Scarpa, può essere utile la metafora del flipper attraverso la quale l’architetto stesso ama raccontare le sue configurazioni mai ortogonali, mai simmetriche, mai armoniche. Sono spazi che costringono l’osservatore-pallina a muoversi in continuazione, a mutare il punto di vista, a fruire la pianta lungo ogni direzione, soprattutto le inclinate. Il motivo del perché favorire queste ultime è semplice: permettono meglio di attraversare con l’occhio gli ambienti, captandone di scorcio gli elementi costitutivi, e quindi di percepirli per i loro valori plastici. Mentre, a loro volta, gli oggetti sono costruiti per esaltare punti di vista obliqui, attivando così un cortocircuito virtuoso e, comunque, tale da non lasciarci mai indifferenti. Inutile chiedersi quanto tale approccio debba all’architettura obliqua teorizzata negli Anni Cinquanta e Sessanta da Claude Parent e messa a punto da André Bloc e dal gruppo Architecture Principe. Il debito alla spazialità di Scarpa, metabolizzata e creativamente reinventata, è a mio avviso così prepotente da porre in secondo piano gli altri influssi, anche se storicamente e formalmente evidenti.
UN PROGETTISTA ONNIVORO
Riva ha una notevole cultura figurativa come si richiede a un progettista onnivoro, che rifiuta ogni semplificazione. Non è difficile trovare nella sua opera riferimenti a grandi architetti, quali Frank Lloyd Wright, Louis Kahn, Frederick Kiesler, ai temi della cultura razionalista, organica ed espressionista e, ovviamente, a Le Corbusier. Con quest’ultimo si è confrontato a più riprese e recentemente, nel 2016, alla Triennale di Milano con l’allestimento La petite chambre, con il quale era stato chiamato a costruire un prototipo abitativo che facesse i conti con il Cabanon di Roquebrune-Cap-Martin, realizzato nel 1951 dal maestro svizzero come sua residenza di vacanza. Mentre Le Corbusier aveva realizzato una costruzione compatta che sfruttava al massimo, e secondo i principi di proporzionamento armonico del Modulor, i pochi metri quadrati a disposizione, Riva articola in lunghezza lo spazio dotandolo di un piccolo annesso per l’ingresso e per il compartimento del wc, che così è ben staccato dalla zona più propriamente abitativa: un modo perentorio per sottolineare il nesso che lega l’articolazione dello spazio con l’individuazione e l’organizzazione delle funzioni. Rifiuta inoltre la logica dell’ortogonalità, realizzando finestre inclinate che ampliano la superficie a disposizione del tavolo da pranzo e del letto, permettendo viste oblique verso l’esterno. Colloca due finestre a cassetto (ognuna formata da un doppio infisso con un ampio spazio che separa i due) accanto al tavolo da lavoro. Il risultato, pur prendendo le mosse da Le Corbusier, è antitetico, a testimoniare una ricerca che, invece che all’ideologia da manuale delle costruzioni matematiche, come appunto quelle della sezione aurea, porta a un lavoro di dis-articolazione e di ri-articolazione mai finito, perché basato su regole del gioco inventate volta per volta e quindi sempre, in un certo senso, precarie e modificabili.
I SETTE INSEGNAMENTI
Sono almeno sette gli insegnamenti che provengono dal non-metodo di Umberto Riva.
Primo: che, dall’articolazione dello spazio, occorre far scaturire una pluralità di funzioni, per evitare di cadere nella trappola dell’estetismo e dell’arbitrio formale. La complessità senza corrispettivo funzionale è, infatti, un non senso.
Secondo: che è essenziale considerare gli arredi come parte pulsante dello spazio architettonico, ed è quindi bene disegnarli dotandoli di energia plastica. Esistono sedie, tavoli e porte di serie ma ogni progetto è l’occasione per metterli in discussione. È l’architettura, nella tradizione di Frank Lloyd Wright e di Charles Rennie Mackintosh, che genera il disegno degli arredi e non viceversa.
Terzo: che è consigliabile costruire il volume non per masse compatte ma per piani, in modo da conservare il dinamismo di uno spazio sempre proiettato su più direzioni, che sono appunto quelle delle giaciture dei piani stessi.
Quarto: che bisogna spezzare e unire, articolare e disgiungere lasciando l’oggetto in bilico fra il troppo finito e il non finito, in modo da non togliere mai energia alla forma, e all’osservatore il piacere della scoperta e il gusto di completare lui, con la sua immaginazione, l’opera. Si deve giocare con gli spessori, le sovrapposizioni, le stratificazioni ed evitare il piano parete liscio e astratto.
Quinto: che occorre far traguardare sempre lo sguardo relazionando interno ed esterno, evitare gli spazi chiusi, aprire a un punto di vista inaspettato, esaltare la dimensione obliqua.
Sesto: che è necessario giocare sull’altezza, differenziando l’alto dal basso e concependo il soffitto come ulteriore strato sul quale lavorare e verso il quale condurre lo sguardo dell’osservatore.
Settimo: che la buona architettura sperimenta tutti i materiali e tutti i colori. Considera il bianco un colore tra i molti e utilizza le altre tinte per individuare meglio lo stratificarsi dei piani e per evitare l’effetto camera operatoria di stampo purista. L’architettura di Riva è massimalista, mai minimalista.
Dicevamo in apertura che poco gli ha giovato l’essere considerato un poeta degli interni. Aggiungerei che ancorai meno ha aiutato il suo dichiarato e costitutivo anti-minimalismo. In un panorama architettonico innamorato delle riduzioni e delle semplificazioni e sempre alla ricerca della sintesi pacificata e ordinata, riconducibile a un bello stile a-problematico e decorativo, Riva ha qualcosa che non funziona. Come sempre succede con i bravi, anzi i più bravi, occorrerà ancora del tempo, forse molto tempo, per dedicargli la dovuta attenzione.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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