Architetti d’Italia. Renato Nicolini, il molteplice

Stavolta Luigi Prestinenza Puglisi traccia la storia di uno dei suoi punti di riferimento in ambito architettonico, Renato Nicolini.

In ognuno di noi convivono una decina di persone diverse – maschere, avrebbe detto Pirandello – che si alternano a seconda delle circostanze e degli interlocutori. Credo che Renato Nicolini ne abbia ospitate ancora più numerose. Se non ci credete, provate a fare una ricerca: c’è l’architetto, il professore universitario, l’assessore alla cultura del Comune di Roma, l’inventore dell’effimero, il militante del PCI, il rinnegato del PCI…
Così lo descrive Gianni Accasto, che divise con lui e Vanna Fraticelli gli studi universitari e parte dell’attività successiva: “È stato un genialissimo dilettante. Leggero ed efficacissimo a illuminare le profondità delle cose. In architettura e politica”.
Accasto tralascia la letteratura e il teatro, passioni alle quali dedicò gran parte della sua vita, facendo l’attore, promuovendo una compagnia teatrale alla facoltà di Reggio Calabria, scrivendo testi.
Se provate a chiedere di Renato Nicolini, ognuno ne fornirà un ritratto affettuoso e diverso. Ciascuno aggiungerà che era un personaggio molteplice.
Motivo per il quale io, da parte mia, di questi personaggi mi limiterò a raccontarvene uno, quello che ho conosciuto.

LEGGEREZZA E SPERIMENTAZIONE

L’ho conosciuto nel 1975 alla facoltà di architettura. Ero uno studente del primo anno e lui era l’assistente di Mario Fiorentino, professore di Composizione Architettonica 1. Credo che Mario Fiorentino quell’anno lo abbiamo visto solo alla lezione introduttiva e il giorno dell’esame, come era usanza della gran parte dei professori di composizione di allora. Tutto il tempo lo passavamo quindi con l’assistente, allora poco più che trentenne, essendo Nicolini nato nel 1942.
Nicolini in quel momento era schierato con quel vasto movimento di intellettuali di sinistra (non tutti, per la verità: anzi, dentro la sinistra c’erano polemiche feroci, per esempio contro i funzionalisti, sia pure critici, alla Giancarlo De Carlo e alla Carlo Melograni) che stigmatizzava il Movimento Moderno, nella sua versione più meccanica ed efficientista, contrapponendogli gli studi sulla città. E, difatti, aveva collaborato con Portoghesi a Controspazio e aveva scritto, insieme a Gianni Accasto e Vanna Fraticelli, un libro sull’architettura di Roma Capitale che rivalutava l’edilizia eclettica e accademica, suscitando le ire di Bruno Zevi. I riferimenti erano gli storicisti che si interrogavano sulla eredità di Louis Kahn e tutti coloro, in prima linea Aldo Rossi, che rivendicavano il primato della forma urbana.
E, difatti, i due libri che ci faceva leggere per l’esame erano Origine e sviluppo della città moderna di Carlo Aymonino – un testo che esaltava la bellezza della Parigi di Haussmann scritto in polemica con un libro di Leonardo Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna – e il libro, a dire il vero noiosissimo, di Giuseppe Samonà, L’urbanistica e l’avvenire della città.
A giudicare da questo approccio, Nicolini sarebbe dovuto essere un personaggio pesante, sostenitore di conformazioni architettoniche ancora più grevi. Quella che ci veicolava era infatti la cultura che aveva dato vita ai disastrosi interventi edilizi realizzati o da realizzarsi in Italia in nome dell’architettura della città e della rinnovata amicizia con la Storia (scritta con la S maiuscola): dallo Zen di Palermo al Corviale, non a caso disegnato da Mario Fiorentino. Passando per Gibellina e per diversi altri edifici non meno esiziali.
Ma Nicolini era molto di più di tutto questo. Direi, anzi, che era un personaggio estremamente leggero, nemico della monumentalità e della retorica: ci parlava di teatro, di Jorge Luis Borges, della più sognante metafisica e delle avanguardie. Era aperto alle ricerche sperimentali, un sensore coltissimo di quanto di meglio bolliva in pentola.

Corviale, Roma, photo Federica Verona

Corviale, Roma, photo Federica Verona

L’IMPORTANZA DELL’EFFIMERO

Nei seminari parlava, parlava, parlava. Sempre a braccio. Non credo abbia mai preparato una lezione. E non credo ci abbia mai mostrato un’immagine. Bastava il suo racconto per stimolare l’immaginazione. Per seguirlo ci costringeva a chiamare a raccolta le nostre conoscenze e, poi, a casa a leggere. A cercare i suoi mille autori.
Era, insomma, un personaggio carismatico. Non privo di ironia, come mi accorsi una volta quando intervenne a un’assemblea citando un autore sudamericano da lui inventato ma passato, ovviamente, per uno di quelli che non si poteva non sapere chi fosse.
Credo che Nicolini si rese conto del mio interesse e di quello di Nino Saggio, con il quale studiavamo insieme, e ci chiamò a fine corso a dargli una mano. La collaborazione svanì presto. Non ricordo perché, forse perché in quel momento stava diventando assessore al comune di Roma con le giunte Argan, Petroselli e Vetere, attività che lo prese dal 1976 al 1985.
Fatto sta che ci siamo persi di vista. Né l’ho cercato perché in quegli anni mi allontanavo dal PCI e non mi riconoscevo più nelle sue posizioni culturali.
Vennero gli anni duri della P38 del rapimento Moro (1978) delle BR.
Si aveva paura a girare per Roma. Ricordo gli spari alle manifestazioni. Una volta che stavo a Trastevere ci siamo dovuti proteggere mettendoci dietro un muro.
Nicolini evitò di proporre la città di Aldo Rossi, di Aymonino, di Samonà. Inventò un’altra città, più vicina al situazionismo che agli isolati di pietra. Era la scoperta dell’effimero.
Devo confessare che all’inizio mi sembrava un modo di scappare dai problemi con soluzioni facili ma senza costrutto. Non era così: Nicolini era riuscito ad anticipare la cultura del corpo, del desiderio, della libertà che riesce a cambiare lo spazio perché ne cambia l’uso.
Un’operazione culturalmente gigantesca che precorreva i tempi. Altro che Corviale o Gibellina che il tempo lo cercavano di riportare indietro.
Oggi appare chiaramente che non è stato Purini con i suoi edifici monumentali a ridisegnare la città d’oggi, ma Nicolini, invitando tutti a essere leggeri (lo stesso spinse Purini a realizzare un teatro effimero a via del Sabotino, pronto a essere smantellato dopo il suo uso).
Oggi l’effimero dovremmo riscoprirlo. Potrebbe essere la soluzione per sfuggire alla nostra incapacità di agire sull’urbano, ostinandoci ancora in questa epoca di immateriali a cercare committenti come Giulio II o Sisto V o a credere che la gente frequenti uno spazio pubblico solo perché disegnato in un modo o in un altro (è interessante notare come le teorie di Bernard Tschumi, che successivamente hanno trainato ricerche molto avanzate, debbano non poco al precedente delle esperienze romane).

Franco Purini e Laura Thermes, Teatrino Scientifico di Via Sabotino, Roma 1979. Courtesy Fondazione MAXXI

Franco Purini e Laura Thermes, Teatrino Scientifico di Via Sabotino, Roma 1979. Courtesy Fondazione MAXXI

PRESS/TLETTER

Di Nicolini, dicevo, persi le tracce. Seppi più tardi dai giornali che era caduto in disgrazia con il PCI, un partito troppo serio, ipocrita e strutturato, e poi che fu fatto assessore a Napoli con un partito che non era il suo.
Girava anche voce che si fosse bevuto il cervello. Erano maldicenze dei suoi avversari che volevano mettere definitivamente all’angolo il traditore? O era perché faceva uso di sostanze stupefacenti? O, forse, era la depressione che non esita a colpire le persone più geniali?
Lo incontrai nei primi anni del Duemila a Siracusa, grazie a Ugo Cantone, allora preside della facoltà di architettura. Almeno così mi ricordo.
Era sempre la persona straordinaria che avevo conosciuto: brillante, leggera, acuta. Si accompagnava con Marilù Prati dalla quale era inseparabile. Pensai che era stata lei a ridargli energia e a rimetterlo in carreggiata.
Mi feci dare il numero di telefono. E un giorno decisi di chiamarlo. In quegli anni stavo lanciando la presS/Tletter, una lunga mail settimanale mandata via posta elettronica che parlava di architettura e raccontava quello che la stampa paludata taceva. L’iniziativa stava andando oltre ogni rosea previsione: avevamo superato quota 15mila invii. Gli proposi di collaborare.
Era l’interlocutore ideale: la persona più aperta e intelligente di un fronte opposto che non amavo ma che, grazie alla pluralità di punti di vista, avrebbe potuto trovare interesse per la presS/Tletter. E, poi, Nicolini era stato il mio mito e mi faceva rabbia che in quel momento fosse scaricato da tanta cultura ufficiale che invece avrebbe dovuto essergli riconoscente.
L’operazione, insomma, tornava sia economicamente (nel senso di aumento di tiratura, perché denaro la presS/Tletter non ne ha mai fatto) che affettivamente.
Nicolini si mostrò entusiasta. Decidemmo per una rubrica dal nome Le cartoline di Renato Nicolini. Gli piaceva perché gli ricordava una rubrica televisiva dal titolo La cartolina che era stata tenuta da Andrea Barbato.
E così dal 2007 al 2012 ogni settimana mi mandò le sue. A volte erano due, quattro o cinque e qualche volta anche dieci.
Con il passare del tempo, scoprii che con Nicolini erano più le cose che ci avvicinavano che quelle che ci dividevano. Alcune battaglie, per esempio quella contro l’immobilismo della Darc, la Direzione generale per l’Architettura e l’Arte contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività culturali, diretta da Pio Baldi, furono comuni.
Averlo come presenza costante fu molto importante per me: mi fece capire che era morto il tempo delle riviste di tendenza, compatte e allineate su temi condivisi, e che la diversità è valore. E questo devo dire anche quando Renato era troppo tenero o troppo duro con personaggi o eventi che io avrei trattato in ben altro modo (una volta non resistetti e pubblicammo nello stesso numero due scritti tra loro opposti, affettuosamente – ma neanche troppo ‒ in contrasto).
Il problema della presS/Tletter era di essere pensata come un giornale. Si buttava dopo averla letta. Mi sembrava però un crimine che i suoi scritti andassero perduti. E così un giorno telefonai a Claudio Presta che dirigeva Prospettive, una piccola casa editrice finanziata dall’Ordine degli architetti di Roma.
Gli chiesi se con le centinaia di cartoline scritte se ne poteva fare una pubblicazione. Che si fece. E per fortuna se no, di questi sette anni, non sarebbe rimasto che qualche byte in rete.
Con Renato non ci vedevamo spesso. Ho sempre creduto che le amicizie intellettuali hanno bisogno di essere coltivate a una certa distanza. Lo invitavo, una volta l’anno, al corso di scrittura critica. Nonostante lo avessero operato di un tumore, venne accompagnato da Marilù a farci lezione anche nel 2012, oramai malato, con i polmoni che facevano fatica a farlo respirare.
Conoscevo quel tipo di brutte bestie: non ti danno scampo. Ero commosso, sapevo che era l’ultima volta che lo avrei rivisto, ma non potevo dare a vederlo.
Se ne andò qualche mese dopo. Era stato, sia pure a modo suo, sia pure a modo mio, uno dei miei più amati e ammirati Maestri. Mi aveva insegnato quanto vale l’intelligenza e che ci sono infiniti modi per fare architettura. Mi piacerebbe rivederlo da qualche altra parte.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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