Contro un capolavoro di Zaha Hadid. L’editoriale di Marcello Faletra
Che la Stazione di Afragola, progettata dalla scomparsa Zaha Hadid, sia un capolavoro, nessuno lo discute. Ma non la pensa così Marcello Faletra.
Chiunque prenda il treno o l’autostrada che da Napoli porta a Roma o a Caserta, non potrà non notare il capolavoro dell’architetto Zaha Hadid, la stazione ferroviaria ad alta velocità di Afragola. L’intera struttura è un’autentica Magna Carta dell’architettura contemporanea nella “Terra dei fuochi”. Le soluzioni scenografiche a effetto, il design fantascientifico, la stereometria di forme e luci fanno di questa architettura un oggetto assoluto, un cristallo da collezione per la sua perfezione compositiva; troppo lontana da noi, umani, per poterla abitare. È troppo avanti nel tempo e nello spazio. Questa struttura è un perfetto ready-made architettonico che coniuga la modellizzazione matematica e l’estetica dell’oggetto puro. Nella sua seduzione avveniristica è una specie di al di là dell’architettura. Infatti: è pure difficile da raggiungere. Per arrivarci si rischia di perdersi nel labirinto di stradine comunali e provinciali che costringono a viaggiare al ritmo del carro da buoi. Mesi fa una donna che vi sostava, colta da infarto, è deceduta perché l’ambulanza, pur trovandosi a un tiro dalla stazione, ha avuto difficoltà a soccorrerla per via di una segnaletica inesistente. Per i centri commerciali non è così. È come se Hadid avesse dimenticato di calarsi al livello delle difficoltà del luogo, contribuendovi pure con parti realizzate in cartongesso, destinate al degrado. Inoltre, le pareti inclinate della sala d’attesa accolgono come un manto la polvere che vi si deposita. Pochi umani possono accedere alla stazione. Occorre avere un biglietto per l’alta velocità.
“Questa struttura è un perfetto ready-made architettonico che coniuga la modellizzazione matematica e l’estetica dell’oggetto puro. Nella sua seduzione avveniristica è una specie di al di là dell’architettura. Infatti: è pure difficile da raggiungere”.
L’architettura, come status di classe, si perpetua, nonostante il volto “democratico” dell’ipermodernità. Un inquietante silenzio promana dalla nervatura trasparente del tetto, sotto il quale in media non c’è che un pugno di persone. Un silenzio siderale proietta la stazione in un fantomatico spazio che nulla divide con gli abitanti del luogo. Il capolavoro di Hadid – perché formalmente è un capolavoro – è consonante con se stesso. Non respira l’aria del luogo. A proposito di certe architetture velleitarie, Bruno Zevi notava: “Le bare impacchettano i cadaveri ma, almeno nella forma trapezoidale, aderiscono alla morfologia dei contenuti. Per gli uomini vivi, neppure tanto: sono inscatolati in modo inorganico, astratto, cinicamente”. Ma in questo caso non sono neppure inscatolati, semplicemente non esistono. Alla fine, nell’impossibilità di praticarla, questa stupenda architettura è destinata a essere una funzione inutile. Non è un luogo per umani, è celibe, senza l’altro. Chi è estraneo tra l’oggetto puro della stazione e gli abitanti della zona?
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42
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