In ricordo di William Alsop, architetto geniale

Luigi Prestinenza Puglisi ripercorre la storia di William Alsop, architetto britannico che ha saputo calare la disciplina del progetto nel flusso caotico della ricerca artistica. Senza remore o timori.

William Alsop (Northampton, 1947-2018) era un genio, un talento straripante, un grande protagonista dell’architettura. E anche un personaggio scomodo che non accettava di banalizzare l’edilizia a routine o a mestiere, perché la considerava un prodotto di invenzione che per ben funzionare ha bisogno della capacità spiazzante e dirompente dell’arte. Forse proprio per questo era scarsamente seguito e apprezzato da critici, professori e architetti, tanto che pochi si sono accorti della sua scomparsa, avvenuta il 12 maggio di quest’anno.
Latitanti anche le riviste italiane nel darci la notizia, fornendo un adeguato profilo dell’architetto. Era prevedibile. Nel nostro Paese dominano altre retoriche. Sono lo smisurato culto della misura, del buon gusto, dell’impeccabile esecuzione artigianale. Da qui la metafora vincente del sarto. In Italia, infatti, si parla tanto di abiti su misura, di buon taglio, di accurata esecuzione delle rifiniture e sin anche di ricucitura. Da noi, infatti, non si interviene nelle periferie: le si rammenda.
Alsop alla metafora loosiana del sarto era poco sensibile. Se non altro per il fatto che, quando un artista interviene, non cuce addosso i vestiti, rivoluziona i comportamenti. Forzando oltre misura l’immagine, potremmo dire: te li strappa di dosso.
In questo senso William Alsop è l’anti Renzo Piano, l’anti Michele De Lucchi, l’anti Cino Zucchi.

Alsop aLL Design, Sharp Centre For Design, Toronto, 2004. Photo Richard Johnson

Alsop aLL Design, Sharp Centre For Design, Toronto, 2004. Photo Richard Johnson

UN IMPECCABILE COSTRUTTORE

Uno che invece di concepire l’architettura come uno strumento di benessere e armonia, in un circuito retto dalle leggi della buona educazione, inserisce il progetto nella centralità caotica e problematica della ricerca artistica, e cioè della prospettiva di una rinnovata esistenza.
Non è però l’artista pasticcione e gestuale che tutti i teorici della buona etichetta temono. Nelle opere del britannico non si trovano gesti inutili e sopra le righe.
Glielo hanno vietato le sue origini high tech, la sua educazione alla precisione nata all’Architectural Association e la frequentazione con Cedric Price. Alsop, infatti, era un impeccabile costruttore, uno che riusciva a concretizzare senza sbavature le sua inesauribile energia.
È solo che sapeva bene che la tecnica, anche se umanizzata, da sola non salva. Il corretto e piacevole funzionamento di un prodotto è uno dei requisiti, forse il più banale, della contemporaneità. Serve un altro ingrediente. Lo apprende da Viktor Sklovskij: è il potere azzerante e rigenerante della fantasia non irreggimentata, moltiplicatrice di orizzonti, generatrice del salto del cavallo, della mossa che destabilizza l’equilibrio consuetudinario lungo direzioni mai semplici e scontate.
Ecco perché Alsop è stato trattato, anche dai critici più benevoli, come un deviante di genio da cui però stare alla larga. Perché il tabù dell’architettura oggi è la pretesa dell’architetto di fare l’artista e di generare, conseguentemente, comportamenti che non rientrino all’interno di una generica etichetta.
È da esibizionisti ‒ accusano i ben pensati ‒ provocare sorpresa, stupore, disorientamento, come quando ci si illude di far volare un edificio. Invece Alsop dimostra che, se lo si vuole e lo si crede, un edificio può stare a mezz’aria e così, per esempio, lo Sharp Center a Toronto, completato nel 2004, può inserirsi in un contesto che poco avrebbe tollerato un edificio banale, grazioso e saldamente ancorato al terreno.
Oppure ritengono che sia un esibizionismo avanguardista mettere in gioco la consuetudine del progetto d’autore, come quando sul finire degli Anni Ottanta, a Hérouville Saint-Clair, con Massimiliano Fuksas, Jean Nouvel e Otto Staedler, contribuì al progetto di una torre in cui ciascun architetto aveva disegnato un proprio pezzo, riprendendo tecniche di collaborazione già sperimentate nel campo dell’arte.

UN CRITICO VIVACE

Per questa loro intrinseca irrequietezza gli edifici disegnati da Alsop sono sempre laboratori, non spazi istituzionali. Pongono la domanda: come mi potrai usare? Non invitano a seguire uno standard consolidato e accettato. E, quindi, sono destinati o al successo o al fallimento.
A rendere più indigeribile il personaggio è il fatto che non è mai stato un semplice progettista. Ma anche una vivace voce critica che ha scritto, raccontando il proprio punto di vista. E un professore impegnato. Insomma non ha tenuto privato, come conviene agli eccentrici secondo il cliché dell’accademia, il proprio punto di vista.
Quel che è peggio, ha mostrato che la distanza tra la sua vita e la sua arte non aveva ragione di esistere. Che si può vivere in modo diverso dipingendo quadri straboccanti di colore, bevendo super alcolici, vestendo in modo sciatto, lavorando a ritmi frenetici ma anche oziando e scambiando quattro parole con gli amici, infischiandosene del denaro.
Esattamente il contrario dell’archistar, vestita Armani o Prada, focalizzata sugli incarichi e sulle strategie della comunicazione, e oggi vincente.

Alsop & Störmer, Peckham Library, Londra, 1999. Photo Roderick Coyne

Alsop & Störmer, Peckham Library, Londra, 1999. Photo Roderick Coyne

COME NELL’“ATTIMO FUGGENTE”

Quando penso ad Alsop, che ho avuto l’onore per un breve periodo di frequentare, mi viene in mente il professor Keating protagonista de l’Attimo fuggente. Cioè quello che, per i mediocri, era un pessimo maestro, ma che in effetti è l’unico che in un’epoca difficile come quella contemporanea può ancora insegnare il segreto della poesia. E il poeta, mi dispiace, è ai miei occhi più desiderabile di qualsiasi buon sarto.
Anche per Alsop risuonano le obiezioni mosse a Keating: perché illudere i ragazzi a diventare artisti? Chi si prenderà cura dei fallimenti di coloro che, non riuscendo a diventare poeti, rimarranno sorde capre? Perché re-inventare ogni volta l’acqua calda? Un’accusa subito mossa dall’articolista del Guardian che, nel ricordo dedicatogli, dopo aver lodato Alsop, ne ha voluto subito prendere le distanze.  Meglio a questo punto il modesto sarto a cui è stato insegnato a cucire un buon abito. L’artigiano che sa ben muoversi all’interno di un perimetro tracciato.
E così, in nome dell’aurea mediocrità, ecco che Alsop può essere sottratto al ruolo di chi ha capito quanto l’architettura, e cioè la vita, abbia bisogno di una continua sterzata e di perenne tensione. E può essere rubricato, appunto, come l’eccezionale e cioè l’eccezione che conferma tutt’altra regola. Bene, se cadete in questo errore, sappiate che avete compreso poco e nulla della lezione di William Alsop. Per capirla, come gli alunni di Keating, dovete provare a mettervi in piedi su un tavolo.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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