Biennale di Architettura di Venezia. L’opinione di Valerio Paolo Mosco
Quali sono le debolezze della Biennale Architettura curata da Yvonne Farrell e Shelley McNamara? Quali i vincitori morali? Il punto di vista su “Freespace” di Valerio Paolo Mosco.
Iniziamo dal titolo che le curatrici, Yvonne Farrell e Shelley McNamara, meglio note come Grafton Architects, hanno scelto per questa edizione della Biennale veneziana: Freespace. Il titolo fa venire in mente quanto Isaiah Berlin, un liberale scettico, acuto e alle volte graffiante, affermava: che la libertà in sé non esiste, che essa appare solo dove è negata. Tralasciamo le implicazioni politiche di questa sapienziale affermazione e concentriamoci sul suo valore se applicata all’architettura. Si potrebbe affermare che lo spazio appare dove esso è negato, o se non altro dove esso trova un limite: appare dunque in relazione ai sistemi murari che lo limitano. Bruno Zevi, come si sa, a riguardo ha scritto pagine ancora attualissime. Viene in mente allora quando egli scriveva di spazio “rinserrato” dai muri, spazio che proprio nei muri limitanti trova la sua ragione d’essere. Egli ad esempio scriveva di come la fioca luce delle prime chiese romaniche, e specialmente di quelle bizantine, uscisse allo scoperto nelle murature che egli definiva, con un esempio di poesia applicata alla letteratura di architettura, “tremolanti”.
SUL CONCETTO DI SPAZIO LIBERO
Le Grafton, al contrario di Berlin e di Zevi, pensano che lo spazio libero sia una cosa in sé, quasi fosse un elemento trascendente polimorfico, ma ahimè il loro spazio libero, mancando di limiti, non appare e allora è come se fosse un olio essenziale che evapora a contatto con l’aria delle Corderie e dei Giardini. Il Freespace quindi come ennesima locuzione a effetto che tenta di tenere insieme ciò che insieme non sta e non deve stare. Così, appena entrati alle Corderie, ci si chiede cosa hanno a che fare le nude, essiccate e frugali architetture degli indiani di Case Design con le agghindate, levigate e scadute architetture di Diller & Scofidio; continuando, ci si chiede cosa c’entrano il supposto (dalle Grafton) freespace di Mario Botta con le brutaliste architetture di Angela Deuber o i primi degni eredi di Eric Miralles, ovvero Flores e Prats, con l’architettura Anni Novanta a buon mercato di Manfredi e Weiss? Il gioco diventa allora quello del “che cosa c’entra” ed è un gioco che può continuare all’infinito e che nulla toglie però alla qualità di alcuni autori che, anche se “non c’entrano” con altri, sono bravi, alle volte molto bravi.
QUANDO C’ERANO I CRITICI
La Biennale delle Grafton tutta incentrata sull’incongruenza delle scelte non è un caso isolato, ma è un segno dei tempi. Un tempo, ormai lontano, c’erano i critici, ovvero coloro i quali selezionavano in base a un’idea a priori, giusta o sbagliata che fosse, coloro i quali reputavano adeguati a suffragare il loro impianto critico. Essi lavoravano per esclusione, inevitabilmente. Poi, importati dal mondo dell’arte, sono arrivati i curatori, i quali hanno congelato il pregiudizio critico diluendolo nelle logiche di mercato, operando così una sorta di imbalsamazione istituzionale che di certo non ha giovato al dibattito. Oggi sembrerebbero scomparsi entrambi, fagocitati da un ecumenismo relativista che, per coloro i quali intendono l’architettura come un’arte significante, lascia spiazzati. Il risultato è allora che un episodio come la Biennale (la più prestigiosa mostra di architettura al mondo) è diventata una fiera simile a quella dell’arte di Basilea: un episodio corroborante, ricco e stimolante, ma pur sempre una fiera. E allora ci chiediamo se non sarebbe logico, come a Basilea o a Londra o a Miami, mettere vicino ai disegni e ai modelli dei prezzi. Perché esimersi dall’aspetto commerciale? Se non altro risveglierebbe il dibattito e non poco.
Se si considera tutto ciò come una criticità, se si pensa che tra una mostra e una fiera debba porsi una profonda distanza, è opportuno ipotizzare delle alternative. La prima è ritornare all’antico mondo dei critici e indirizzare l’esposizione verso dei temi specifici, per cui limitativi, non ecumenici. È quello attuale un momento per l’architettura di cambiamento in cui si stanno affermando nuove identità collettive che si agglutinano su identità che il più delle volte non sono novità significative, espressioni di un gusto profondamente cambiato, per di più cambiato dal basso, senza pregiudiziali ideologiche. Archiviata finalmente la confusione a buon mercato decostruttivista, dimenticato il supponente minimalismo scultoreo, rimosse le derive sociologiche o quelle che mimavano il mondo dell’arte o del design, l’architettura di oggi sembrerebbe aver intrapreso diverse strade. Proviamo a elencarle: in primis quella della sobrietà e quella della frugalità. Due tendenze che tendono a ibridarsi a vicenda e per questo non poco interessanti; quella del nuovo classicismo di matrice inglese, quella dell’edificio iconico per così dire stilizzato o la strada della nudità, dell’edificio spogliato il più possibile dei finiti, dell’edificio che torna al rustico in aperto contrasto con l’ormai archiviata architettura degli involucri. Ci si chiede allora perché non scegliere uno di questi temi e imporre una profonda torsione critica a quella che, vale la pena ripetere, è la più potente e bella esposizione di architettura al mondo.
Si potrebbe a ciò obiettare che nessuna di queste matrici del gusto contemporaneo ha la forza di esprimere un panorama compiuto, che i tempi in cui Paolo Portoghesi nel 1980 presentava il “facciatismo” postmoderno come l’architettura del futuro è ormai passato. Obiezione fondata, d’altronde ai tempi di Portoghesi l’architettura era un fatto esclusivamente occidentale, mentre oggi è sempre più globalizzata, per cui limitare le espressioni della globalizzazione in vincoli troppo stretti potrebbe essere inadeguato.
COME RITORNARE ALLA MOSTRA?
Se allora si parte da questa plausibile, ma solo in parte condivisibile, obiezione si potrebbe pensare a un’alternativa: mettere in mostra le diverse tendenze ponendole a confronto, caso mai identificando di ognuna di esse il genoma. D’altronde ci dobbiamo rassegnare al fatto che viviamo un momento storico di profondo manierismo, in cui il nuovo è sempre una manipolazione figurativa e semantica del già visto. Si potrebbe ad esempio mostrare come la nuova sobrietà dal sapore frugale debba molto a Lacaton & Vassal o come il classicismo inglese dei vari Caruso St John o Sergison and Bates sia nato nel momento in cui David Chipperfield ha messo da parte la scultura minimale; oppure si potrebbe mettere in mostra come il genoma dell’architettura nuda sia quello dell’architettura svizzera o sudamericana, che hanno avuto il buon gusto di non cadere nelle trappole del postmoderno e del decostruttivismo. Allora, sia nel caso in cui si tornasse ai critici che escludono, sia che si tornasse ai curatori che mettono in relazione, la fiera tornerebbe a essere una mostra, anzi nel primo caso una vera mostra.
I PUNTI DI FORZA DELLA MOSTRA INTERNAZIONALE
La fiera delle Grafton comunque non manca di acuti: su tutti i plastici romantici alla Kiefer di Peter Zumthor che simbolicamente sovrastano al piano rialzato gli spazi del Padiglione ex-Italia ai Giardini, dove troviamo anche l’elegantissimo allestimento di Cino Zucchi dedicato al “suo” Caccia Dominioni, oppure all’Arsenale i già citati Case Design, Angela Deuber e Flores&Prats. Da ricordare anche Paredes e Pedrosa, Niall Mc Lauglin, Matharoo e tre italiane che non solo non sfigurano, ma si ritagliano alcuni dei momenti migliori della fiera: le intime e liriche Maria Giuseppina Grasso Cannizzo e Francesca Tozzo e il chiaro e calibrato intervento per il Corviale di Laura Peretti. Sfigurano, invece, i big del passato: Mario Botta sfiora l’irritante, Toyo Ito e la Sejima monumentalizzano la banalità e Moneo ci ridona una sua frase di tanti anni fa, di troppi anni fa.
UNO SGUARDO AI PADIGLIONI NAZIONALI
Ai Giardini i soli che interpretano il vaporoso tema del Freespace sono gli inglesi, che liberano completamente il padiglione e realizzano una magnifica pedana sopra il tetto su quella meraviglia che è Venezia, quasi a volerci dire che il freespace è già dato, basta scoprirlo. Ma è già dato a Venezia: verrebbe voglia di mettere la pedana su quel lebbrosario edilizio che ha contaminato irrimediabilmente il lento e rurale Veneto: l’effetto sarebbe ben diverso. Si tengono al tema anche gli svizzeri che realizzano, dentro il padiglione, un sistema di stanze fuori scale; noi diventiamo come Alice nel Paese delle Meraviglie e, poiché la trasformazione riesce, gli svizzeri vincono il premio come miglior padiglione. In entrambi i casi si tratta però di trovate e bisognerebbe chiedere all’architettura e alle città se hanno bisogno ancora di trovate. Sobrio, compatto e discorsivo il Padiglione Italia curato da Mario Cucinella, che ci racconta i piccoli borghi nazionali, la loro bellezza, la loro fragilità e le loro risorse nascoste. Un racconto, quello di Cucinella, che viene nobilitato dalla qualità dell’allestimento e dalla tonalità del racconto in cui sembrano convergere due maestri dello stile italiano, Renzo Piano e Cino Zucchi. Il risultato è il miglior padiglione nazionale da tempo immemore o se non altro il più calibrato. Dopo aver visto persino il prato alla Leroy Merlin in una scorsa edizione, il padiglione di Cucinella ci fa se non altro respirare.
LA SORPRESA CINA
Chi sono allora i vincitori morali della fiera delle Grafton? Inaspettatamente i cinesi. Il tema del loro padiglione, per certi versi simile a quello italiano, è il recupero dei borghi rurali; ma, al di là del tema (il tema non c’entra nulla con la qualità dell’architettura, è buona norma ricordarlo), nel padiglione si vedono dei progetti di impianto chiaro, persino banale, in cui insistono spazialità terse, compatte e prevedibili, progetti spesso realizzati con inaspettata maestria. Se consideriamo quello che da un punto di vista progettuale è il più convincente dei padiglioni e lo mettiamo a reagire con le belle architetture, a momenti commoventi, di altri cinesi, i DNA Design che espongono alle Corderie, abbiamo allora un’architettura tutta da scoprire, eppure già vista: iconica ma appartenente al luogo, in cui sentiamo l’eco di Louis Kahn, un’architettura che si dona immediatamente ma che non è banale, che esprime un monumentale nudo a piccola scala e lo esplicita nel dettaglio costruttivo artigiano quasi a voler lanciare una sfida al design grossolano con cui sono state costruite negli ultimi anni le downtown cinesi. Un’architettura che da un lato intende ricordare una tradizione, dall’altra la crea e lo fa con una certa inaspettata nonchalance.
L’ESORDIO DELLA SANTA SEDE
Per finire il Padiglione del Vaticano, curato da Francesco dal Co che ha chiamato tredici architetti a costruire nei Giardini dell’Isola di San Giorgio, le loro cappelle. Cappelle cattoliche (il committente è il Vaticano) che di cattolico non hanno niente. C’è chi scambia la trinità per un cannon lumière, chi pensa che la casa di Dio è una voliera, chi azzarda un gesto da base missilistica, chi scambia una cappella per una tomba o un deposito attrezzi e chi, essendo scintoista, dovendo fare una cappella cattolica, ha pensato che la più pallida e penitenziale cappella protestante potesse andar bene per un credo che da sempre si è fondato sull’esplicito donarsi della forma. Si rimane infine colpiti quando si incontra un oggetto simile a un bar da spiaggia di Miami che alcuni dicono essere una cappella. Poi appare, vicino alla laguna che guarda il Lido, finalmente la prima e l’unica cappella cattolica: un oggetto semplice ma misterioso, contemporaneo e arcaico al tempo stesso, che strizza l’occhio ai Carrà, ai Savinio, ai Malaparte, ai Rudovsky dell’architettura senza gli architetti. Gli autori di questa cappella sono Flores&Prats, i due discepoli di Miralles che abbiamo già incontrato alle Corderie. Un consiglio: sedersi nello spazio aperto della cappella che guarda la laguna, dimenticarsi per un attimo della fiera e lasciarsi andare al piacere di essere lì in quel luogo, ringraziando coloro i quali ce lo hanno permesso e qualcun altro ben al di sopra di essi. Poi tornare alla fiera, perché, se si considera come tale, è una bella fiera, tutto sommato imperdibile.
‒ Valerio Paolo Mosco
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