Dal Messico al mondo. Parola alla progettista Frida Escobedo
Nell’anno della sua consacrazione internazionale, con l’incarico per il Serpentine Pavilion a Londra, abbiamo incontrato la progettista messicana Frida Escobedo, impegnata in patria anche sul fronte della ricostruzione dopo il sisma del 2017.
Nata a Città del Messico nel 1979, Frida Escobedo ha rapidamente scalato le vette dell’architettura contemporanea mondiale. Dopo la laurea presso la Universidad Iberoamericana di Città del Messico e un master alla GSD di Harvard, si aggiudica, ancora studentessa, l’incarico per il recupero della leggendaria Tallera di David Alfaro Siqueiros a Cuernavaca. Da allora, un susseguirsi di progetti permanenti tra Messico e Stati Uniti, installazioni in tre continenti e partecipazioni a mostre internazionali. Dopo l’AR Emerging Architecture Award 2015 e il titolo di Emerging Voice 2017 conferitole dalla Architectural League di New York, con l’incarico per il Serpentine Pavilion 2018 arriva la consacrazione globale del suo talento: a soli 39 anni, è la più giovane progettista a firmare il tradizionale padiglione estivo nei Kensington Gardens di Londra. Una commissione prestigiosa, che negli anni è stata affidata a Zaha Hadid, Oscar Niemeyer, Herzog & de Meuron, Bjarke Ingels, fra gli altri. E che Escobedo dimostra di saper abilmente interpretare, realizzando un intimo rifugio in celosie di tegole in cemento. Ed è proprio dal padiglione, dove l’abbiamo incontrata in occasione dell’opening dello scorso 15 giugno, che ha preso il via la nostra conversazione.
L’INTERVISTA
Ci troviamo all’interno del tuo Serpentine Pavilion: presentandolo hai dichiarato di esserti ispirata ai Proun di Lissitzky. Un riferimento che non passa inosservato, se penso che per Zaha Hadid, iniziatrice del programma nel 2000 e unica donna prima di te a firmare il progetto singolarmente, le Avanguardie russe sono state una costante fonte di ispirazione…
A dire il vero è stata una fortunata coincidenza! Pur conoscendo il legame fra Zaha Hadid e le Avanguardie russe, il riferimento a El Lissitzky deriva dalla sua idea di concepire lo spazio per frammenti. Il padiglione ha una geometria molto semplice – si tratta in sostanza di una scatola in una scatola. Ma, una volta entrati, diventa tutto più complesso: la copertura specchiata, il triangolo d’acqua a terra e le bucature delle pareti a celosia creano riflessi e distorsioni che rendono difficile l’orientamento. È impossibile dunque percepire il padiglione come un unico oggetto, una totalità: al contrario, ne facciamo esperienza in una sequenza di momenti, in cui, a seconda di come ci muoviamo o di dove guardiamo, lo spazio si comprime, si dilata e cambia forma o natura. Credo che questo sia esattamente il modo in cui percepiamo qualsiasi spazio costruito, frammento dopo frammento.
Questo padiglione è solo l’ultimo dei numerosi interventi temporanei che hanno segnato la tua carriera. Penso all’Eco Pavilion di Città del Messico del 2010, al Civic Stage della Triennale di Lisbona 2013, alla Randolph Square per la Chicago Biennial 2017, per citarne alcuni. Che ruolo ha questo tipo di progetti nel tuo fare architettura?
In un’installazione hai un tempo condensato per testare tante idee: è un piccolo laboratorio a tempo per sperimentare soluzioni che in futuro potranno essere applicate a strutture permanenti. Ma, al di là della durata, non faccio distinzioni fra un’installazione, un oggetto o un edificio.
Ci spieghi meglio?
Per me architettura, arte e design sono tutte indistintamente “spatial practices”. Una lezione che ho imparato alla Graduate School of Design di Harvard [Master in Art, Design, and the Public Domain conseguito nel 2012, N.d.R.]. Prima concepivo l’architettura nella sua accezione tradizionale, fatta di teoria e progetto. Da allora il mio campo di azione si estende a tutte le pratiche che interagiscono con lo spazio che ci circonda, dallo urban all’industrial design fino alla public art. Come la Estación No.6, una scultura monumentale concepita per la prima edizione della Biennale d’Architecture d’Orléans, ora permanentemente installata nel Parc Floral de la Source.
Lo scorso settembre una serie di drammatici eventi sismici ha colpito alcuni Stati centrali e meridionali del Messico, causando centinaia di vittime, decine di crolli e danni a oltre 80mila strutture. In che modo il tuo Taller sta prendendo parte alla ricostruzione?
Da qualche mese collaboriamo con l’associazione non profit PienZa Sostenible a ReConstruir Mx, un’iniziativa che promuove interventi di ricostruzione in aree con scarse risorse attraverso processi partecipati, laboratori di autocostruzione e criteri di sostenibilità. Al momento siamo impegnati a Ocuilan, fra i comuni maggiormente danneggiati dal sisma del 19 settembre. In particolare, stiamo lavorando a una delle 100 unità abitative previste dal piano di ricostruzione. Il progetto, che stiamo elaborando insieme alla famiglia a cui sarà destinato, prevede il parziale recupero delle strutture esistenti e la costruzione di nuove con materiali e tecniche locali. È il primo passo, ci auguriamo, di una lunga serie.
Su quali altri progetti sei al lavoro, in Messico e nel mondo?
A Città del Messico è in fase di completamento Mar Tirreno, il nostro primo progetto di residenze collettive: un blocco urbano in cui, dietro una celosia di cemento, si intrecciano su più livelli una serie di case a patio. Sempre in Messico, stiamo lavorando a due strutture alberghiere, una in un piccolo edificio a corte di fine ‘800 nel cuore di Puebla, l’altra a Bacalar, nella penisola dello Yucatan. Negli States, invece, stiamo progettando due spazi pubblici, uno a Miami e l’altro a San Francisco. A questi si aggiungono varie installazioni e due residenze private, a Città del Messico e Madrid.
Dal presente al futuro. Per una giovane progettista come te il Serpentine Pavilion è uno straordinario trampolino di lancio: dove vorresti arrivare?
Vorrei rimanere curiosa e approfondire l’indagine sullo spazio pubblico, dimensione che più mi affascina. Il più delle volte il contesto in cui opero impone forti limiti al mio raggio d’azione. Piattaforme come la Serpentine, invece, mettono a disposizione un supporto economico e tecnico che permette di sperimentare a un altro livello: spero dunque di avere altre occasioni simili, anche per progetti permanenti. Non intendo comunque voltare pagina, ma aggiungerne di nuove!
E per il tuo Taller, immagini salti di scala?
Al momento non ho particolare interesse nell’espandermi. Siamo un team di otto professionisti di nazionalità [messicana, statunitense e italiana, N.d.R.] e competenze differenti: è una dimensione ideale, che permette di avere conversazioni orizzontali, in cui ognuno è partecipe della parte concettuale. Siamo una macchina perfettamente collaudata!
‒ Marta Atzeni
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