Politiche abitative. Grandi assenti alla Biennale di Architettura di Venezia
Il Victoria and Albert Museum di Londra prende parte all’appuntamento lagunare con la mostra “Robin Hood Gardens: A Ruin In Reverse”, che accende i riflettori sul tema abitativo.
A qualche mese dall’apertura della 16. Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia i giochi sembrano ormai essere fatti. Passati da tempo architetti, critici ed esperti, sono ormai in pochi ad avventurarsi nell’afa veneziana tra i padiglioni dei Giardini e per gli imponenti spazi dell’Arsenale. L’attenzione è d’altronde già rivolta all’anno prossimo: il 19 luglio è stata presentata alla stampa la 58. Esposizione Internazionale d’Arte che, sotto la direzione di Ralph Rugoff, aprirà al pubblico il prossimo 11 maggio. Liquidata da molti come una sconclusionata e approssimativa raccolta di costosi plastici e semplicistici gesti, la “Biennale delle Grafton” sembra aver convinto pochi. Forse per la grande libertà lasciata agli architetti nell’interpretazione del tema Freespace o forse per il gran numero di progetti presentati a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro come in una mondana fiera d’arte. La sedicesima Mostra sembra in questo essere ben lontana dal successo ottenuto nelle ultime due edizioni dall’analitico approccio di Rem Koolhaas o dal concreto appello sociale di Alejandro Aravena. Un motivo in più insomma per ripensare, mentre l’evento continua a ingrandirsi di anno in anno con nuove partecipazioni nazionali, eventi collaterali e mostre estemporanee, al significato di questa mega piattaforma dell’architettura globale. Fino alla domanda forse più importante: Qual è il ruolo di una biennale di architettura oggi?
ROBIN HOOD GARDENS
Se il compito di una biennale è quello di dare voce alle preoccupazioni fisiche, politiche e sociali degli architetti e quello di indirizzare gli sviluppi futuri, mettendone a fuoco le tematiche centrali, gli agnostici spazi delle Grafton sembrano volerci dire ben poco. Perché è proprio la politica, quella architettonica e urbana, la grande assente di questa Biennale. Un’assenza che ha anche creato polemiche, passate, soprattutto sulla stampa italiana, per la maggior parte inosservate. Tra i progetti più discussi durante le prime settimane della mostra il Padiglione delle Arti Applicate, organizzato per il terzo anno consecutivo dal Victoria and Albert Museum di Londra. All’interno dello spazio all’Arsenale, curato da Olivia Horsfall Turner e Christopher Turner, una mostra analizza la storia e il destino del complesso londinese di case popolari Robin Hood Gardens, progettato nel 1968 da Alison e Peter Smithson e terminato nel 1972. Il complesso, considerato da alcuni come un capolavoro di architettura sociale brutalista del Novecento e da altri come un inumano e grigio casermone in cemento, è stato negli ultimi anni al centro di un acceso dibattito pubblico, al quale hanno preso parte anche grandi nomi del mondo dell’architettura come Zaha Hadid o Richard Rogers. Le campagne per il salvataggio dell’edificio non sono tuttavia riuscite a contrastare le pressioni immobiliari londinesi: ai Robin Hood Gardens, attualmente in fase di demolizione, si sostituirà un nuovo quartiere, per lo più privato, di residenze e uffici. Fin dall’annuncio della demolizione nel 2014, il Victoria and Albert Museum ha espresso il desiderio di acquistare un frammento dell’edificio da demolire per la sua collezione permanente. Quest’ultimo, rimontato a Venezia dallo studio muf architecture/art e ARUP, è oggi visibile nello spazio esterno di fronte al padiglione, parte integrante del progetto insieme a una piccola mostra storico-critica e a una video installazione dell’artista Doh Ho Suh.
ESPORRE UNA ROVINA
L’idea di mostrare un frammento di un edificio, i cui abitanti sono attualmente costretti ad abbandonare, come un’opera d’arte alla Biennale di Venezia, ha suscitato non poche polemiche. Prima di tutto a Londra, dove il progetto è stato etichettato da diverse voci di feticismo estetico. E poi a Venezia stessa, dove le proteste londinesi hanno trovato il sostegno delle iniziative locali, impegnate nella lotta alla turistificazione e gentrificazione della città storica. Il giorno precedente all’apertura della mostra una serie di manifestanti hanno protestato in contemporanea di fronte all’Arsenale di Venezia e al Victoria and Albert Museum di Londra. Obiettivo dell’iniziativa veneziana: catalizzare l’attenzione della cerchia internazionale di architetti appena giunta in laguna sulle tragiche dimensioni raggiunte ormai dalla speculazione immobiliare e dall’espulsione di grandi fasce di popolazione dalle aree centrali delle città. Un tema che unisce in un certo senso Venezia a Londra o, bisognerebbe forse dire, alla quasi totalità delle città europee. E una questione che sembra essere, nonostante le molteplici interpretazioni del tema Freespace, del tutto assente dalla mostra principale. “Perché il Victoria and Albert Museum e l’opinione pubblica britannica reputano il complesso Robin Hood Gardens degno di essere esposto in un museo ma non abbastanza da impegnarsi in prima linea per la sua conservazione?”, chiedevano provocatoriamente i manifestanti. E perché celebrare anacronisticamente un’utopia, che ha portato, anche in Italia, a risultati discutibili? verrebbe da aggiungere. Dal canto loro i curatori vedono nel progetto una sorta di catalizzatore per un dibattito sul futuro dell’edilizia sociale in Europa. Sicuramente una buona idea in una Biennale di apolitica matrice. Bisognerà ora vedere se effettivamente un dibattito avrà luogo.
CASE POPOLARI PER VENEZIA
Se Robin Hood Gardens: A Ruin in reverse ‒ è questo il nome ufficiale del progetto londinese ‒ rappresenta praticamente l’unico tentativo di trattare il tema dell’edilizia sociale nella mostra principale, un altro evento, esterno alla Biennale, durante la prima settimana di apertura ha cercato di occuparsene. L’iniziativa Unfolding Pavilion, avviata due anni fa da Daniel Tudor Muntenau, Davide Tommaso Ferrando e Sara Favargiotti, si propone di aprire in concomitanza con l’inizio di ogni Biennale di architettura significativi e spesso poco conosciuti edifici del Novecento a Venezia. Per la prima edizione è stato aperto al pubblico un appartamento dell’impressionante Casa alle Zattere di Ignazio Gardella. Quest’anno è stato il turno di tre appartamenti vuoti nel complesso di edilizia sociale Giudecca, realizzato tra il 1984 e il 1986 su progetto di Gino Valle. Grazie a un accordo con il Comune di Venezia, le tre unità abitative sono state concesse in uso per cinque mesi, utilizzate per diversi workshop e attività e infine aperte al pubblico durante la prima settimana della Biennale. Dopo questo periodo di mostre, proiezioni e conferenze, i tre appartamenti sono stati restituiti, completamente ristrutturati, al Comune stesso. Un gesto significativo, in una città nella quale l’emergenza abitativa si fa sempre più grave.
VERSO UNA BIENNALE DELL’ABITARE?
A prescindere dall’opinione riguardo al Padiglione delle Arti Applicate o più in generale al concetto di Freespace proposto da questa Biennale, le controversie suscitate dall’iniziativa del Victoria and Albert Museum, così come l’Unfolding Pavilion di quest’anno sono indicative di un’urgenza: trattare il tema delle profonde trasformazioni che le nostre città stanno vivendo a causa della crescente privatizzazione delle politiche dell’abitare, della crescita esponenziale del mercato turistico e della democratizzazione del settore ricettivo. Venezia è in questo, ancora una volta, laboratorio e caso estremo: a fronte di un’assente politica pubblica a riguardo, gli architetti sono diventati semplici accompagnatori del processo che ha portato quest’anno il numero di abitanti della città insulare a scendere sotto la soglia dei 54mila abitanti. In che modo possono gli architetti confrontarsi con questo tipo di fenomeno? Esistono possibili strategie che concilino politica e architettura in direzione della salvaguardia della struttura urbana delle nostre città? O ancora: come canalizzare i grandi flussi di investimenti e opportunità che questi processi portano con sé in maniera intelligente e sostenibile? Domande, queste, che sì sarebbero attuali e urgenti per una futura Biennale di architettura. Appuntamento: Venezia 2020.
‒ Leonardo Lella
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