Vatican Chapels: una nuova cultura del mostrare. Intervista a Francesco Dal Co
Francesco Dal Co, curatore del Padiglione della Santa Sede, tira le fila dell’esperienza forse più singolare della 16. Mostra internazionale di Architettura di Venezia e ripercorre la vicenda della realizzazione delle undici cappelle in una porzione del bosco situato sull’Isola di San Giorgio.
Alla luce dei progetti realizzati, la prima suggestione raccolta dai visitatori è quella del forte legame delle cappelle con il bosco che le ospita e con il percorso di scoperta che il visitatore stesso è invitato a compiere. La vicinanza critica e visuale esistente tra le cappelle, che in qualche modo non le rende tra loro isolate ma entità in stretta relazione tra loro, è un’operazione voluta o è risultato di un vincolo imposto dall’area di progetto?
Quando abbiamo cominciato a lavorare, l’area di progetto, che misura circa un ettaro e mezzo, era un bosco, sostanzialmente abbandonato nel tempo e ha richiesto da parte nostra un’opera di pulizia per sistemarlo. C’erano alcuni vincoli: il primo era rappresentato dagli alberi che sono molto alti e, a Venezia, crescono in maniera particolare, essendo il terreno imbibito di sale (le radici tendono ad espandersi superficialmente). Naturalmente il nostro obiettivo era preservarli e non tagliare le radici. Inoltre, l’altra scelta fatta era di realizzare le fondazioni usando la tecnica tradizionale sulla quale Venezia è stata costruita, con i pali di legno. Quindi abbiamo dovuto fare delle indagini per capire dove mettere questi pali, dove localizzare le cappelle, e questa è stata la prima decisione che si è presa. Dopodiché abbiamo redatto un vero e proprio piccolo piano urbanistico assegnando le aree individuate ai vari progetti, cercando da un lato di rispettare alcune richieste che ci erano state fatte dai progettisti e dall’altro di stabilire dei confronti, giocando sempre sullo scarto che vi era tra loro.
E il padiglione Asplund? Che ruolo gioca nel piano “urbanistico” generale?
Non appena si varca la “soglia” del parco ci si trova innanzi al padiglione Asplund, che racconta la storia della cappella nel bosco dell’architetto svedese e che volevamo diventasse un’“informazione” per il pubblico che visitava il padiglione. A quel punto abbiamo proceduto per degli accostamenti, diciamo così: il più evidente credo sia quello tra la cappella di Souto de Moura e quella di Carla Juaçaba, che sono evidentemente molto diverse. Il piano urbanistico ha permesso di mettere a confronto i progetti che ci sembravano più atti a spiegare quanto diversi fossero gli approcci di ciascun progettista. In piccola misura abbiamo considerato anche alcune viste che si potevano avere pensando che, com’è avvenuto, il pubblico si potesse muovere molto liberamente all’interno dell’area senza seguire i tracciati che, pur tuttavia, erano stati sistemati. Abbiamo pensato anche a questo, ma se si vuole dare un’immagine complessiva è stato un piano urbanistico fatto puntando sui confronti tra modi di esprimersi molto diversi.
Il potere evocativo richiesto ai progettisti, cui erano stati dati come input due “vincoli progettuali”, l’ambone e il crocifisso, e la capacità delle cappelle di costituirsi come luoghi di incontro: come potrebbe riassumere, in poche parole, le soluzioni che i singolarmente adottate dagli architetti per risolvere, nella propria proposta, il potenziale di questi luoghi di essere al contempo d’incontro e di evocazione mistica?
La cappella, inizialmente, nasce come luogo d’incontro. Nell’Esodo 33,6,7, quando il Signore si rivolge a Mosè, gli parla dell’Ohel Mo-ed, della prima cappella, e gli dice esplicitamente che uno dei caratteri fondamentali che questo luogo deve possedere è che sia spoglio di qualsiasi ornamento. Poi lui, il Signore, estende tale asserzione anche a Mosè, dicendogli: “Togliti di dosso i tuoi ornamenti e saprò cosa farò di te”. E questo era uno dei caratteri che volevamo ottenere, un’essenzialità della cappella che nasce, appunto, come luogo d’incontro, come descritto nell’Esodo. Il secondo carattere era legato al tema, sempre rifacendosi alla Bibbia, della sua origine tessile. Noi diciamo cappella a partire da una parola che è ‘cappa’, il mantello degli uomini d’armi. Nel 371, quando Martino incontrò il povero, aveva una cappa che tagliò in due donando una delle parti al povero per proteggerlo. Da lì la parola cappella, ex la chapelle che nacque quando Carlo Magno portò la reliquia della cappa di Martino da Tour ad Aquisgrana. Quello che volevamo ottenere era un edificio che avesse entrambi i caratteri.
E gli architetti come si sono relazionati con questi riferimenti simbolici suggeriti dalla vostra curatela?
L’ulteriore caratteristica richiesta era che, all’interno del bosco, la costruzione rappresentasse un momento di orientamento, di incontro. La presenza del crocifisso e dell’ambone è stata indicata ma non era assolutamente vincolante per nessuno; alcuni l’hanno usato, altri non l’hanno usato, non ci sono state indicazioni o prescrizioni da parte della Santa Sede né da parte mia. Gli architetti sono stati veramente liberi di interpretare queste suggestioni che noi gli abbiamo comunicato. Il momento in cui tutto è cambiato è stato quando hanno visto questo luogo, perché il sito ha dei caratteri straordinari. Questo aspetto da un lato ha facilitato molto la comunicazione e la discussione, dall’altro ha reso il tutto molto divertente ed entusiasmante, perché nell’ultima parte del 2017 i progetti sono venuti raffinandosi rapidissimamente e già prima di Natale avevamo individuato come e con chi collaborare per realizzarli.
Quali son stati i tempi di realizzazione delle cappelle?
Abbiamo iniziato a costruire il 15 di febbraio e il 15 maggio abbiamo finito. Quindi, dal punto di vista della prestazione tecnica, questo è un risultato difficilmente eguagliabile: undici edifici in un lasso di tempo di quattro mesi, in un luogo che non è facile da raggiungere, con enormi problemi per portare lì materiali ed elementi prefabbricati, senza la possibilità di montare una gru e dovendo utilizzare solo mezzi su gomma.
È stata un’impresa di cui sono francamente orgoglioso, con tutto il piccolissimo team che lo ha fatto. Chiunque può avere obiezioni in merito all’idea o al risultato, ma sull’operazione in sé io non penso vi sia molto da dire.
Per la Biennale di Architettura le Vaticans Chapels sono certamente un’esperienza ineguagliata, trattandosi di opere costruite, rispetto alla versione “classica” di esposizione all’interno degli Arsenali o dei Giardini, in cui i padiglioni sono esistenti e le mostre vi si collocano all’interno. Proprio per il legame forte che le cappelle hanno con il luogo che le ospita, resteranno lì o verranno spostate altrove?
Quando la Santa Sede mi ha chiesto di fare il Padiglione del Vaticano mi ha semplicemente chiesto di fare il Padiglione del Vaticano. Io mi sono preso una settimana di tempo per mettere a punto il progetto, che poi è quello che è stato realizzato. Quando ho esposto le linee generali di questo progetto, ho detto chiaramente che non volevo fare un padiglione tradizionale. L’arte moderna, l’arte contemporanea, l’architettura e tutto quello che le unisce nell’ultimo mezzo secolo, hanno cercato spazi che non coincidono più con l’idea di padiglione. Il padiglione è una tipologia edilizia ottocentesca gloriosissima, quando i quadri venivano esposti all’interno dei salon francesi: poteva essere piccolo, grande, in spazi circoscritti e definiti.
Le Vaticans Chapels sono dunque, architettonicamente parlando, dei non-padiglioni…
Uno dei tratti dell’arte moderna e contemporanea è di uscire dagli spazi chiusi, invadere l’ambiente, rapportarsi alla natura, e lo stesso vale per l’architettura. Tutte le volte che si vede una mostra di architettura, per quanto bellissima, arricchita dai disegni più belli o raccontata nei film, per l’architettura contemporanea, non si vede l’architettura di per se stessa, ma delle sue rappresentazioni. L’architettura vive sotto il sole, la pioggia, ed è fatta di materiali che reagiscono alla luce, alla pioggia, al terreno… Per cui le mostre, a differenza di quelle d’arte, lasciano sempre un’immagine di qualche cosa che non è nato. Ora, io non ho nulla contro le mostre di architettura, anzi, ne ho fatte molte, ho una lunghissima esperienza: non volevo però ripeterla. In quest’occasione mi sono detto: proviamo a costruire. Volevo cogliere l’opportunità di affermare l’idea che una mostra di architettura si realizza quando l’opera è costruita, è vivibile nella realtà fisica, nel mondo, ma mi piaceva molto anche l’idea di prendere spunto da questa opportunità per aprire uno spazio di Venezia, un bosco meraviglioso, un parco. Unendo questo due volontà è nato il progetto.
Quali sono state le reazioni della committenza alla sua proposta?
Quando ho esposto il progetto dicendo “Vorrei costruire 10 cappelle”, nessuno di loro ha battuto ciglio: “Però le vorrei costruire dentro un bosco”, ho aggiunto. I motivi per cui le volevo costruire dentro un bosco sono evidenti: dall’Orlando Furioso alla Divina Commedia, esso è la metafora del vagare della vita, del labirinto, e nel bosco si incontrano – e di qui il ruolo che avevamo assegnato alla cappella di Aplund -, le costruzioni, le opere che ti orientano, ti permettono di incontrarti e quindi risolvono il tuo essere perso nel labirinto della vita. E la cappella è quest’immagine. Questo è il concetto di fondo. Quando l’ho esposto tutti hanno pensato che fosse una bella idea, ma hanno chiesto dove avessi uno bosco. Ho risposto che io un bosco a Venezia sapevo dov’era. Nessuno ci credeva, e invece c’era, ed è un’altra delle cose di cui sono soddisfatto: aver aperto questo spazio bellissimo alla fruizione della gente. Proprio l’altro giorno abbiamo raggiunto i 100.000 visitatori, un traguardo non irrilevante. 100.000 persone che hanno visto le cappelle ma soprattutto hanno visto questo luogo bellissimo. Può essere che qualcuno torni quando avrà i bambini più grandi, pensando che vorrebbe portarli lì, ampliando così la fruizione della città.
Visto il grande successo di pubblico e il riscontro positivo anche per il territorio, si può prevedere un futuro per le cappelle ed il bosco che le ospita?
Le cappelle e il loro futuro: questo non spetta a me dirlo. Il mio lavoro è andato molto oltre la consegna del 25 maggio. È possibile che la decisione presa sia quella di tenerle per i prossimi anni, andranno vincolate per diritto d’autore e potrebbero rimanere dove sono oggi, pensando ai necessari adeguamenti per far sì che si possano mantenere per un periodo più lungo di quello per cui erano state concepite. E credo sia un’operazione assolutamente percorribile. Sarebbe stimolante di certo provare ad utilizzare le cappelle anche come padiglione della Biennale d’Arte, ma non dipende da me una decisione in merito.
In chiusura, vorrei parlare della sua esperienza di curatore. Lungo il suo percorso, sia all’interno della Biennale di Venezia che nel mondo dell’editoria, ha avuto modo di incontrare e conoscere gli architetti coinvolti nel progetto e dal momento in cui si è scelto un riferimento così evocativo e forte come quello della cappella di Asplund immagino che curare un padiglione con un così forte messaggio le abbia dato modo di riassumere la sua esperienza pluridecennale nel settore…
È stata sicuramente un’esperienza molto interessante. Tra gli undici architetti alcuni sono miei amici intimi, non tutti, non ne conoscevo solo due; gli altri li conoscevo bene, per cui è stato facile e sorprendente allo stesso tempo. In quanto Padiglione Nazionale abbiamo tenuto noi i rapporti istituzionali con la Biennale, e sicuramente ho fatto tesoro della mia esperienza di Direttore per quattro anni: anche se non ci sono più le persone con cui collaboravo, ho un rapporto con loro di grande amicizia e questo ha semplificato l’iter, soprattutto memore dell’importanza del rispetto delle scadenze, che sempre generano problemi all’organizzazione. Noi avevamo undici cantieri con undici tipologie costruttive differenti. Ciò che è stato fatto per Fujimori non era replicabile per Souto de Moura, ad esempio, nulla era ripetibile, maestranze diverse e tecnologie diverse. E proprio per questo insisto sull’importanza dell’essere riusciti a chiudere i lavori tra il 15 febbraio e il 15 maggio: questa è stata la sfida che si è risolta senza attriti né conflitti. Tutto ciò anche grazie alla straordinaria disponibilità del General Contractor che coordinava il cantiere, Sacaim, del team dei progettisti in loco gli architetti Francesco Magnai e Traudy Péelzel, l’ingegnere Luigi Cocco (autori, tra l’altro, del “padiglione Asplund”).
E con gli architetti il dialogo è stato altrettanto fluido?
Non c’è stata nessuna discussione con gli architetti, mai un momento in cui qualcuno ha imposto una sua richiesta, ma sempre soluzioni condivise. Quando abbiamo finito, la sera, siamo andati a bere assieme: quando si fa l’architetto, si può essere uno studio molto piccolo, come alcuni di loro sono, o uno studio molto grande come quello di Norman Foster, ma ciò unisce tutti è la presenza di un committente, di un budget, dei vincoli e delle regole che condizionano il processo, dall’idea alla costruzione e che limita il risultato finale. Quella sera tutti quanti hanno convenuto sul fatto che avessero avuto, in quest’occasione, un regalo: l’aver lavorato molto liberi. E questa per loro è stata un’esperienza abbastanza unica. Ovviamente ci sono stati aggiustamenti tra il preliminare e l’esecutivo, ma le soluzioni sono state sempre trovate assieme.
E questo si vede, si nota la coerenza tra linea di pensiero di partenza e quella di arrivo…
Questo ha del miracoloso: undici team di progetto con i quali non c’è mai stata una frizione importante.
Soprattutto, il fatto che una mostra di architettura esponga architettura costruita finalmente, all’interno di una Biennale che nel panorama delle mostre di architettura ha una valenza così importante, è un punto di svolta.
Un’esperienza del genere non so quanto sia ripetibile. È evidente che quest’operazione ha alzato l’asticella, e questo l’ho visto anche delle reazioni che abbiamo avuto nella ricca rassegna stampa della Biennale. Come metterla a frutto nel futuro bisogna pensarlo bene, ma per replicare l’esperienza si deve considerare la necessità di dedicare un anno della propria vita solo a quello. E quindi anche il mio ruolo di curatore è stato molto diverso dalle esperienze precedenti, un lavoro ed un’equipe assolutamente dedicata solo a questo per contenere informazioni e costi. E questo perché c’è “in ballo” un cantiere.
– Flavia Chiavaroli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati