Recuperare il moderno. Intervista allo studio di architettura Park Associati
Park Associati ha aperto le porte della propria sede ad “Artribune” per presentare i progetti in corso e anticipare i dettagli su quelli futuri, tra cui un’interessante call per giovani designer under 30 in vista della Milano Design Week 2019. E per un commento sulla recente nomination allo EU Mies Award 2019.
Fondato da Filippo Pagliani e Michele Rossi, lo studio Park Associati mette al centro del fare architettura il tema del recupero, ma non solo. Celebri per La Serenissima ‒ il ridisegno dell’edificio dei fratelli Soncini a Milano, un intervento di restyling che mantiene integro il progetto originale, ma ne aumenta il valore qualitativo ‒, sono noti anche per aver realizzato uffici per grandi società e headquarter: “Puntiamo sempre ad ampliare il nostro spettro di azione”, sottolinea Michele Rossi. Tra gli ultimi realizzati a Milano, gli headquarter di Engie alla Bicocca ‒ un vero progetto di hard retrofitting ‒ e di Nestlé ad Assago. Tra i cantieri in corso ci sono la nuova sede di Luxottica; il recupero filologico dell’edificio in piazza Cordusio, dove troverà spazio, tra l’altro, il primo negozio italiano di Uniqlo; un intervento di hard retrofitting su un edificio progettato da Piero Portaluppi, che ospiterà un’importante società straniera; il grande cantiere di Pharo Business Center, in zona CityLife. Intanto, nel loro spazio in via Garofalo 31 a Milano, si preparano a ospitare una nuova mostra in occasione della Design Week, ad aprile 2019. Per l’occasione, Park Associati lancia la prima edizione del bando per giovani designer under 30, mettendo a disposizione l’area espositiva dello studio. Ci hanno anticipato in cosa consisterà.
L’INTERVISTA
Negli ultimi due anni siete cresciuti parecchio. Avete ampliato lo studio, da un piano a due piani…
Filippo Pagliani: Siamo stati per più di dieci anni in un appartamento riadattato a studio. Eravamo un gruppo di circa quindici persone, avevamo alcuni tavoli per la progettazione, una sala modelli, un ufficio e i servizi. Nel 2013 ci siamo trasferiti in via Garofalo, nei locali del primo piano, in uno spazio adatto a ospitare non solo più postazioni di progettazione ma anche librerie, una sala riunioni, una bella e grande cucina. Poi, alla fine dell’anno scorso, c’è stata l’occasione di prendere il piano terra: sotto c’era una tipografia che ha lasciato lo spazio e abbiamo deciso di investire sulla crescita. Avevamo capito che stavano maturando tempi di lavoro più intenso e abbiamo colto il momento giusto. Così, ci siamo allargati: ora, al piano terra, c’è la zona accoglienza, altre sale riunioni, la comunicazione, l’amministrazione, una cucina e uno spazio piuttosto ampio con un grande tavolo dove mangiamo. Ed è proprio questo spazio che abbiamo deciso di far diventare multifunzionale, un luogo dove far accadere eventi che sono sì in rapporto con il nostro lavoro ma sono soprattutto dei modi di aprire lo studio alla città. Il piano superiore è esclusivamente dedicato alla progettazione.
E ora anche i collaboratori sono raddoppiati…
F. P.: Sì, questo ci ha permesso di essere più agili nel seguire più progetti: è un polmone che può crescere, ora ci stiamo stabilizzando. Il futuro è sempre imprevedibile e puntare ai grandi numeri non è il nostro fine primo. La gestione non deve essere pesante e complicata; la qualità deve essere sempre alta.
Michele Rossi: Ora siamo quarantacinque persone. Abbiamo raggiunto una dimensione più importante, certo, ma non è necessario crescere. Qui si può ancora concepire lo studio come un atelier, un luogo di scambio di idee e di pari contributi da parte di tutti. Solo questo ci farà veramente crescere ancora e non nei termini in cui si pensa debba necessariamente crescere una grande azienda.
Nel settore, c’è sempre la tendenza a etichettarvi per i progetti di uffici Ma quali sono gli ultimi progetti a cui state lavorando? Headquarter, interventi XL per società importanti…
M. R.: Negli ultimi anni abbiamo lavorato soprattutto sugli headquarter, uffici per grandi società. Ma puntiamo sempre ad ampliare il nostro spettro di azione, anche per metterci alla prova con progetti un po’ diversi. È un ambiente in cui c’è stato e c’è ancora un grande mercato. Purtroppo non viene riconosciuta una grande qualità al tema degli uffici: ovvio che in una pubblicazione il tema museale risulta più interessante e sexy, ma credo che il nostro bello sia stato quello di affrontare in maniera nobile questo tema un po’ sottovalutato e riuscire a realizzare progetti di una certa qualità architettonica con una certa dose di creatività.
Motivo per cui siete stati nominati all’European Union Mies Van Der Rohe 2019 con il progetto di Engie in Bicocca…
M. R.: Sì, siamo rimasti molto sorpresi, proprio per questo motivo. Il tema è difficile, non è il ridisegno di una piazza o un museo che può coinvolgere più persone a tutti i livelli della società. Qui c’è la sede di una società privata, frutto di un investimento finanziario: non proprio temi eccitanti. È il cambiamento che si ottiene a livello di qualità della vita urbana attraverso questo tipo di intervento che sta diventando sempre più attuale. E non solo nel mondo dell’architettura.
F. P.: Il tema del recupero architettonico sta assumendo sempre più importanza e noi gli siamo molto legati. Nel recupero di un edificio tratti e interpreti il tema ogni volta in maniera diversa, con differenze impressionanti tra un progetto e l’altro: ci sono ristrutturazioni filologiche, come il caso della Serenissima, o trasformazioni violente come per Engie, in cui non si riconosce più quello che c’era prima.
Più che un recupero, allora, per l’headquarter di Engie si parla di una trasformazione estrema. Voi lo definite un intervento di “hard retrofitting”. Che cosa intendete?
F. P.: Sì, credo anche sia questo il motivo per cui siamo stati nominati al Mies Award. Ci sono nuovi codici e progetti di lettura dell’architettura della città. Con la nomina di Engie si premia la riqualificazione di un edificio scarso sotto ogni aspetto. Il messaggio che diamo al cliente e al settore in generale è chiaro: l’edificio che vedrete sarà nuovo, avrà una nuova vita, sarà un progetto ex novo e irriconoscibile.
Della struttura originale avete tenuto praticamente solo l’ossatura. Non si faceva prima a demolirlo?
F. P.: Dal punto di vista amministrativo, la demolizione è molto limitante. Oltre all’impatto ambientale del cemento armato, la demolizione complica il processo ed è costosa. Il recupero quindi ha un senso: vai a tenere ciò che non ha senso eliminare e lo trasformi però in qualcosa di nuovo: a tutti gli effetti, lo è. Questo è il cuore del nostro lavoro: il tema del recupero del moderno oggi. Rinnoviamo la città per i prossimi anni, sistemando l’impiantistica che mette in crisi l’utilizzo dell’edificio.
E le tempistiche di progetto, evitando la demolizione, cambiano?
M. R.: Ovviamente. Per dire, il Pharo Business Center – il complesso per uffici che abbiamo in progetto in via Gattamelata a Milano ‒ lo stiamo realizzando in un’area dove era presente un comparto residenziale ormai fatiscente che abbiamo dovuto demolire. È stato un processo faticoso.
F. P.: La demolizione è come un secondo progetto parallelo, si porta dietro un carico di complicazioni allucinanti: le polveri, la bonifica dall’ amianto, i ritrovamenti di ordigni bellici. Se si può evitare, tutto di guadagnato.
Oltre ad Engie, avete realizzato l’headquarter di Nestlé e vi state occupando di quello per Luxottica. Che differenze di metodo ci sono nella progettazione di questi tre quartieri generali?
M. R.: L’edificio di via Chiese è diventato Engie quando il tenant si è appropriato della sede, mentre il progetto commissionato da Generali era già praticamente finito. Nestlé è una via di mezzo: è stato disegnato per il tenant, quindi c’è una grande relazione tra il briefing e quello che abbiamo realizzato. Ci hanno dato direttive molto precise, anche se il nostro cliente diretto era il Gruppo Brioschi Sviluppo Immobiliare. Luxottica invece è proprio il padrone di casa, c’è un’attenzione diversa verso le direttive per la sede: è un’architettura che parla di quell’azienda, molto più personale. Inoltre c’è un aspetto comunicativo diverso, più preponderante.
Tornando all’ampliamento dello studio, avete lanciato una call per la Design Week 2019 rivolta a designer under 30. L’idea è quella di fare una mostra nei nuovi spazi dello studio. Da dove nasce questo progetto?
F. P.: Quando ci siamo allargati al piano terra ci siamo accorti di come il nostro studio, con la corte interna del palazzo, entrasse in relazione con la strada e con il mondo esterno. Allora ci siamo domandati se non tenere uno spazio flessibile nel suo utilizzo, così da organizzare e immaginare eventi che possano susseguirsi in tempi e modalità diversi, tra mostre, presentazioni di libri e molto altro. Abbiamo già organizzato una mostra personale di Thomas Berra; per Bookcity c’è stata la presentazione del libro Disegnare con gli alberi di Marco Bay.
M. R.: Quest’anno, in occasione della Milano Design Week, abbiamo fatto la prima mostra, presentando il lavoro di una coppia di giovani designer italiani: FromOuterSpace, con l’idea di fare qualcosa nello spirito del design meno mainstream e non commerciale. Vogliamo dare visibilità e spazio ai giovani. E magari scoprire un talento nel design che, grazie a questa possibilità, inizia la sua ricerca personale. In questo senso abbiamo lasciato molto libera la call.
F. P.: Ci piacerebbe trovare qualcuno che arrivi con un “progetto cruciale” della sua ricerca personale. Una persona sola? Un collettivo? Non lo sappiamo, è tutto un mistero. L’importante è che si capisca che la filosofia dietro all’idea è quella di stimolare il mondo del design under 30.
Ultima, fondamentale, domanda. Che idea vi siete fatti di Milano in questi anni cruciali di intensa trasformazione?
M. R.: Dal nostro punto di vista, il bicchiere è assolutamente mezzo pieno. È comunque una città che esprime finalmente il grande potenziale che ha e che nel passato, per tanti motivi, non è riuscita a far emergere. Il discorso è lungo, le critiche potrebbero essere tante, ma è obiettivamente migliorata. I cambiamenti e gli sviluppi incontrollati non hanno molto senso, ci vuole una regia che ogni tanto manca un po’, ma tutto sommato il processo funziona. In Italia, non c’è paragone.
F. P.: In questa soddisfazione generale, si spera che Milano diventi un volano per l’intero Paese. Tuttavia la sensazione è quella che non possa accadere. È l’unica città che esprime energia vera legata alla contemporaneità. Si può parlare di micro metropoli? Forse sì, anche se rispetto alle altre realtà europee l’impulso è diverso. Sicuramente ora c’è più interesse verso Milano dall’estero, e non solo dagli investitori o da chi viene qui per lavoro. È aumentato il turismo: oggi non esiste tour turistico in Italia che non tenga in considerazione Milano, cosa impensabile qualche anno fa quando era considerata un polo industriale e commerciale con La Scala e il Duomo da visitare.
M. R.: Milano è diventata una città amata, oltre che dai milanesi anche da molti giovani viaggiatori, abituati a muoversi tra i poli di attrazione urbani europei e mondiali. Milano è una meta globale, unisce tradizione e sperimentazione, ci si viene per viverla e non solo per visitarla.
‒ Bianca Felicori
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