Legge per l’Architettura: cosa ne pensano gli architetti italiani? (II)
Secondo appuntamento con il forum che ha coinvolto architetti, critici e studiosi della disciplina, diversi per formazione, generazione di appartenenza e con esperienze professionali eterogenee, maturate nel nostro Paese e all’estero. Obiettivo: esprimersi sul tema di una eventuale Legge per l’Architettura. E se volete consultare anche le infografiche, non vi resta che sfogliare Artribune Magazine.
IL FALLIMENTO DEI PRECEDENTI TENTATIVI ‒ AMEDEO SCHIATTARELLA
È da quando, nel 1977, la Francia varò la Legge per l’Architettura che gli architetti italiani tentano affannosamente di restituire all’architettura la centralità che le spetta; eppure fu una battaglia vana. Anche nel 2007 in occasione del discorso di Nicolas Sarkozy all’inaugurazione della Città dell’Architettura, la Francia propose una visione moderna e qualificata della società [“(…) Elle est mème en croisement des politiques: la culture, l’économie, l’urbanisme, le logement, l’environnement (…)”] da cui partì in Italia una concitata rincorsa che, ancora una volta, fallì.
Credo che se ottenessimo la promulgazione di un testo di legge sul principio della centralità dell’architettura, gli effetti reali sarebbero irrilevanti. C’è infatti in questo tentativo di recuperare gli spazi di praticabilità perduta, una carenza di analisi della reale situazione italiana. Pur avendo espresso negli Anni Cinquanta e Sessanta un modello per la cultura architettonica europea, si è perso il valore della centralità della qualità progettuale; e ancora più irrealistica è la battaglia sulla riattribuzione delle competenze tecniche. Oggi, per essere chiari, non viene riconosciuta alcuna dignità alla stessa funzione del progettare. Ed è lo stesso Stato a farlo attraverso la regolamentazione delle progettazioni delle Opere Pubbliche: per la legge italiana la progettazione non è un’opera dell’ingegno ma è un’attività di servizio.
Il Legislatore sembra dimenticare che il processo edilizio vede la partecipazione attiva e distinta di tre soggetti: il committente, il progettista, l’esecutore. Il primo conosce le proprie esigenze e le sottopone al progettista, che con le sue conoscenze tecniche fornisce la soluzione. L’esecutore, sotto il controllo degli altri due soggetti, realizza la soluzione con i propri mezzi imprenditoriali. Nel caso delle opere pubbliche, è l’amministrazione pubblica che definisce le proprie esigenze, spesso in modo approssimativo ‒ e attraverso i propri uffici tecnici si trasforma in progettista per fornire le risposte a sé stesso: non c’è conflitto di interessi tra controllore e controllato? Le stesse norme, inoltre, rendono possibile che anche il costruttore/esecutore, tramite l’appalto integrato, si trasformi in progettista. A conferma della funzione puramente strumentale del progetto, si aggiungano la remunerazione, fatta sulla base dell’“offerta economicamente più vantaggiosa” che spesso rende il valore della progettazione marginale, e la selezione, affidata alla capacità finanziaria o alle esperienze già maturate, e non alle capacità reali del progettista di individuare la soluzione. Forse per credere che una legge dell’architettura possa risolvere la situazione, sarebbe necessario stralciare il Codice degli Appalti e dedicare alla progettazione un’apposita normativa. Nell’aprile del 2007, con l’Inarch e il Senatore Luigi Zanda redigemmo un testo di emendamento all’art. 8/legge 163 in materia di disciplina della progettazione, depositato in Parlamento, dove è rimasto. Qualcuno, anche per pura curiosità, potrebbe forse ritrovarlo.
Amedeo Schiattarella
www.schiattarella.com/
UNA QUESTIONE URGENTE ‒ DAVIDE TOMMASO FERRANDO
Si possono distinguere due tematiche strettamente correlate, tra le righe del Disegno di Legge per una Legge per l’Architettura: da un lato, la volontà di promuovere e diffondere la “qualità dell’architettura”, in quanto “decisiva” per la “definizione della qualità della vita umana”. Dall’altro, la necessità di rafforzare la figura dell’architetto, in quanto unica figura professionale in grado di generare tale qualità.
È la qualità architettonica, in effetti, il nodo centrale del documento, che di essa fornisce persino una definizione. “Per convenzione”, si legge nel Disegno, “essa coincide con ciò che permette la soddisfazione del benessere generale del cittadino all’interno dello spazio in cui vive”, dove tale benessere è scomposto in una serie di “valori” da soddisfare in maniera “ottimale, misurata ed efficiente”. Tali valori sono “la bellezza (…), il corretto rapporto con il paesaggio, la capacità di assicurare il benessere e la coesione sociale, il miglioramento ambientale, la sicurezza, l’efficienza energetica”. Ecco. Una simile interpretazione performativa è quanto di più distante dall’idea di qualità architettonica si possa concepire. Perché la qualità architettonica non può essere quantificata: essa deve essere giudicata, non certo ricorrendo a parametri oggettivi (valori, indici, norme), bensì alla valutazione – inevitabilmente soggettiva – di esperti (architetti, accademici, critici) di cui nel documento, però, non vi è traccia. Tanto per capirci: in che misura la Ville Savoye assicura benessere e coesione sociale?
L’interpretazione del Disegno, in questo senso, ha semmai a che fare con la qualità edilizia: che è sì molto importante, ma che non può certo essere responsabilizzata di un compito quale la “definizione della qualità della vita umana”. Compito che, tuttavia, è invocato proprio per legittimare le rivendicazioni professionali contenute all’interno del documento. Si profila così una delle contraddizioni fondamentali del Disegno, il quale si apre appoggiandosi all’ideologia modernista dell’Architettura con la “A” maiuscola che migliora la società – sulla quale, oggi, sarebbe più opportuno interrogarsi – per poi limitarsi a fissare una serie di obiettivi afferenti all’industria delle costruzioni, all’interno della quale il CNAPPC vuole comprensibilmente ricavare ulteriori rendite di monopolio. Sarebbe dunque più onesto e sensato ammettere che, così com’è stato disegnato, il Disegno può contribuire all’adeguatezza dell’ambiente costruito – compito tutt’altro che secondario, tra l’altro –, lasciando perdere il problema della qualità architettonica, che è un’altra cosa, e rinunciando a pretese un po’ naif di influenza sulla società – per la quale è necessario un progetto politico, prima ancora che architettonico. E riconoscere, senza appoggiarsi a fragili stampelle, che in Italia le condizioni di produzione dell’architettura, tra salari meno che minimi, spezzettamento delle fasi progettuali, concorrenza di altri settori professionali (come mai il Disegno non menziona i geometri?), sovrintendenze ultraconservatrici e un sistema concorsi da rifare, sono semplicemente insostenibili. Che è il motivo per cui abbiamo urgentemente bisogno di una Legge per l’Architettura.
Davide Tommaso Ferrando
www.zeroundicipiu.it/
PER UNA LEGGE SULL’ARCHITETTURA – CHERUBINO GAMBARDELLA
Una Legge sull’Architettura dovrà mettere al centro l’importanza di questa disciplina nel miglioramento delle condizioni della vita.
Una Legge sull’Architettura dovrà premiare e facilitare il lavoro di chi si occuperà di mettere in sicurezza il nostro fragile territorio.
Una Legge sull’Architettura dovrà facilitare la rimessa in gioco, la trasformazione, la ristrutturazione del patrimonio esistente, perché la vera scommessa è trasmettere alle future generazioni una bellezza dinamica del paesaggio italiano, anche imperfetta ma emotivamente coinvolgente.
Una Legge sull’Architettura dovrà premiare la limitazione delle demolizioni perché il trasporto a rifiuto è un vero problema ecologico che oggi sottovalutiamo in virtù di una inutile politica additiva in termini di metri cubi.
Una Legge sull’Architettura dovrà avere il coraggio di affrontare persino il problema dell’abusivismo di piccole dimensioni, visto che anche questo è una occasione di ridisegno del Paese piuttosto che inseguire il mito di demolizioni costosissime che quasi mai avvengono e, nel caso degli ecomostri, lasciano spesso una desolazione lunare colma di macerie ben peggiore di quanto c’era prima.
Una Legge sull’Architettura dovrebbe favorire senza soglie di sbarramento la partecipazione degli architetti ai concorsi e alle gare limitandone i costi a semplici idee da fornire online con una sola tavola.
Una Legge sull’Architettura, in un secondo momento, dovrà chiedere al vincitore un approfondimento lasciandogli l’opportunità di scegliere specialisti di fiducia per rendere esecutivi i progetti.
Una Legge sull’Architettura dovrebbe snellire ogni procedura burocratica, perché il Paese muore soffocato dalle scartoffie.
Una Legge sull’Architettura dovrebbe imporre la presenza di un architetto in ogni processo di modificazione.
Una Legge sull’Architettura dovrebbe imporre il pagamento del lavoro fatto da un architetto prima di qualsiasi rilascio di permesso per agire sul suolo nazionale.
Una Legge sull’Architettura dovrebbe consentire ai professori universitari di scegliere liberamente se prestare consulenze oppure svolgere l’intera attività progettuale a seconda se siano in regime di tempo pieno oppure parziale, in modo da non trovarci pieni di università dove chi insegna a progettare non progetta o non ha mai progettato, producendo un insegnamento libresco e convenzionale.
Queste sono le prime cose che mi vengono in mente, ma se una Legge sull’Architettura non affronta almeno queste allora è meglio non farla, visto che in Italia siamo pieni di leggi spesso inutili e in contraddizione tra loro.
Cherubino Gambardella
www.gambardellarchitetti.com/
LETTERA APERTA A RENZO PIANO – ALBERTO IACOVONI
Caro Renzo Piano,
Viviamo in un Paese in cui negli ultimi vent’anni i grandi costruttori hanno fatto il bello (poco) e il cattivo tempo, in cui, nonostante la vastità della produzione edilizia, sono pochissimi i quartieri di nuova realizzazione degni di essere indicati come esempi virtuosi per ulteriori realizzazioni in Italia o all’estero, guarda caso tutti o quasi al nord della penisola. Analogamente non abbiamo assistito alla messa in campo di strategie organiche e diffuse per la valorizzazione e il recupero di qualità del patrimonio esistente. Questo percorso di decadimento del tessuto fisico ed economico di gran parte delle città si riflette inevitabilmente sull’intero territorio nazionale, dove accanto alla retorica del “Paese meraviglioso” si levano progressivamente opportunità e spazi di manovra a chi quella meraviglia dovrebbe conservarla, reinterpretarla, rinnovarla; si guarda al passato per incapacità di immaginare il futuro.
La classe politica, finora, non ha capito o non ha voluto affrontare il problema – sono state applicate direttive, leggi e norme che hanno favorito solo la dimensione quantitativa della produzione, col risultato di sostenere sempre chi il lavoro già lo aveva e comunque mai valorizzando chi ha investito sulla qualità; con il risultato che gli edifici pubblici del nostro Paese, le scuole delle giovani generazioni e dei bambini, le piazze e i giardini pubblici delle nostre città sono in massima parte brutti, mal disegnati, sciatti e di veloce deperimento.
Questo nonostante le risorse intellettuali e il valore progettuale di molti dei professionisti italiani siano spesso di altissima qualità e ben riconosciute all’estero.
Per questo è necessario cambiare le regole con cui avvengono le trasformazioni del territorio, senza farne di nuove, ma semplificando quelle che esistono e introducendo dei semplici principi capaci di garantire la qualità, come l’esclusività delle competenze dell’architetto sul progetto d’architettura, o il concorso d’architettura obbligatorio per tutte le opere pubbliche e di interesse pubblico, e, allo stesso tempo, attivando delle politiche di sostegno alla diffusione dell’architettura.
E abbiamo bisogno che questi argomenti divengano centrali nel dibattito lì dove le regole si fanno, nel nostro parlamento, poiché da parte nostra come architetti possiamo solo rivendicare dei principi, ma non certo scrivere una legge.
Abbiamo bisogno di interlocutori nel potere legislativo capaci di cogliere l’urgenza di questi argomenti che abbiano la competenza e l’autorevolezza per trasformarli in nuove regole.
Abbiamo bisogno di lei, Senatore Piano, di un architetto che fonda la sua pratica e il suo pensiero su principi etici indiscutibili, che sono stati di esempio e guida per generazioni di architetti, e per il Paese intero.
E abbiamo bisogno che, oltre agli straordinari progetti esemplari che ha avviato nella sua veste istituzionale, dia il suo indispensabile contributo a riscrivere le regole con cui si costruisce questo Paese. Perché sappiamo che senza regole che valgono per tutti, anche il progetto migliore non può incidere veramente sulla realtà.
ARCHITETTURA CON GLI ARCHITETTI ‒ CARLO RATTI
Il dibattito sulla legge per l’architettura mi ha fatto venire in mente un vecchio libro di Bernard Rudofsky: Architettura senza architetti. Un libro che ci ricorda un fatto forse doloroso per il nostro ego professionale, ma innegabile: ovvero che moltissime delle architetture che ammiriamo oggi per il mondo non sono state costruite da architetti. Del resto, se seguissimo le leggi contemporanee, a oggi a nessun progettista o pianificatore urbano sarebbero mai accordati i permessi di (ri)creare Venezia o San Gimignano.
Che cosa è cambiato? Di certo, nell’ultimo secolo e mezzo le tecniche costruttive si sono evolute e moltiplicate, e non permettono più quella naturale omogeneità di linguaggio che consentiva all’“architettura senza architetti” di armonizzarsi al tessuto urbano esistente e del territorio. Oggi abbiamo quindi bisogno di rivendicare l’importanza di una “architettura con gli architetti”. E forse a questo potrebbe servire una legge.
Attenzione: non ho scritto architettura degli architetti, ma con gli architetti. Cercando quindi una sintesi tra il mondo raccontato da Rudofsky e quello contemporaneo. Per creare una vera architettura con gli architetti, credo dovremmo iniziare da una maggior partecipazione dei cittadini. In questo senso le nuove tecnologie ci possono venire in soccorso: il mondo della rete ci consente di promuovere feedback loop e armonizzare molte voci. Mentre i BIM – Building Information Modeling – usati alla scala urbana, insieme ad altri strumenti digitali, permettono di simulare al meglio il processo di crescita della città. Se si potesse fare una legge sull’architettura che incoraggiasse questi aspetti, sarei a favore. Potrebbe essere un passo importante verso una vera architettura aperta – o “Open Source”, per usare il titolo di un nostro recente saggio (Carlo Ratti, Matthew Claudel, Architettura open source. Verso una progettazione aperta, Einaudi, 2014). Un metodo di progettazione collaborativo, in cui un professionista corale lavora non per imporre il proprio ego ma per armonizzare diversi contributi.
“L’Italia l’han fatta metà Iddio e metà gli Architetti”, scrisse Gio Ponti. Aveva dimenticato non soltanto i geometri – artefici di gran parte della produzione edilizia del secondo dopoguerra – ma tutti i cittadini che hanno contribuito a dar forma al Bel Paese. A loro – e non solo ai progettisti professionisti – dovrebbe essere indirizzata una nuova legge, finalizzata a stimolare una vera “architettura con gli architetti”.
Carlo Ratti
https://carloratti.com/
‒ Valentina Silvestrini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #46
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