Sull’ampliamento del Palazzo dei Diamanti di Ferrara. L’opinione di Roberto D’Agostino
L’urbanista Roberto D’Agostino, fra i giovani che, negli Anni Settanta, furono incaricati di redigere il nuovo Piano Regolatore della città e il Piano per il centro storico di Ferrara, si dichiara contrario all’ipotesi di ampliamento di Palazzo dei Diamanti. Ipotesi bloccata pochi giorni fa dal ministro Bonisoli.
L’8 settembre del 1972, sindaco Radames Costa, alcuni giovani architetti, in un primo breve periodo sotto l’egida di Leonardo Benevolo, furono incaricati di redigere il nuovo Piano Regolatore della città e il Piano per il centro storico, poi approvati nel 1975 dopo un processo partecipativo che oggi “ce lo sogniamo”. Passando per Ferrara si vedono qua e là i segni di quel Piano che si poneva in modo innovativo, per allora, nel contenere le previsioni di espansione “senza limiti” dei piani in vigore fino a quei tempi, puntando più sulla qualità, nel merito e nei metodi, che sulla quantità.
Ma soprattutto se ne vedono i segni nella mirabile conservazione del centro storico che a Ferrara, tra le prime città in Italia (Bologna, Modena, poi Brescia e via via molte altre) superava il dibattito che aveva allegramente avviato alla distruzione dei centri storici italiani (e che continua altrove) sul diritto delle nuove architetture ad aggiungersi o sovrapporsi, stratificandosi come nel passato, alle architetture ereditate dalla storia.
Senza voler ricordare il “piccone risanatore”, per decenni i centri storici sono stati trattati con il criterio delle demolizioni risanatrici, o degli edifici di valore, che dovevano essere conservati, e di quelli senza valore che potevano essere demoliti o alterati.
Fino a quando non si è imposta, prima attraverso aspri dibattiti, poi attraverso alcune pianificazioni e realizzazioni esemplari, quella cultura di risanamento attivo dei centri storici che è diventata riferimento ineludibile a livello nazionale e internazionale. E che è stata riconosciuta come il maggiore contributo che la cultura urbanistica italiana ha dato all’urbanistica mondiale.
I CONCETTI
Senza farla troppo lunga, i concetti di base erano che i centri storici dovessero essere considerati un organismo unico, un unico monumento, fatto di una gamma articolata di manufatti tutti necessari nella loro reciproca coerenza: da quelli più rilevanti (chiese, palazzi) a quelli più modesti (il tessuto diffuso degli edifici abitativi); e che la conservazione dovesse essere morfologica (il sistema organico degli edifici e degli spazi aperti) e tipologica (la logica costruttiva e distributiva dei singoli edifici e della loro relazione con gli spazi aperti di pertinenza).
In questa ottica la cultura architettonica contemporanea avrebbe potuto esercitarsi ed esprimersi nell’enorme bisogno di nuove costruzioni là dove potevano essere fatte (cioè dove non vi erano costruzioni storiche), nel recupero delle aree edificate degradate o abbandonate, nella conservazione e ridisegno del paesaggio là dove fosse stato alterato, nell’intelligente opera di recupero e conservazione dei manufatti ereditati dalla storia.
Dopo quelle acquisizioni culturali, la questione se si potesse alterare nella tipologia o nella forma, con aggiunte o altro, un edificio storico, specie se della massima rilevanza dal punto di vista della storia dell’architettura, non solo non si poteva neppure porre, ma sarebbe stata bollata come il rigurgito di un atteggiamento pseudo culturale ormai sepolto o come difesa di interessi particolari prevalentemente di ordine mercantile.
Scrivo queste note in quanto sono uno degli allora giovani architetti che fecero quei piani, che ha continuato per anni a lavorare per le parti pubbliche di quella città e che ha appreso, con sbalordimento, che si vuole fare un ampliamento del Palazzo dei Diamanti.
Non è questione di giudicare se l’intervento è bello o brutto (peraltro, per quel poco che ho visto è un intervento di qualità) e, tantomeno, quanto sia utile per le finalità espositive a cui si vuole destinare il Palazzo: semplicemente non si fa, è culturalmente sbagliato, o meglio è segno di una forte regressione culturale, vale a dire il contrario di quanto affermano i difensori dell’intervento.
LA STRATIFICAZIONE
Le cose che leggo in proposito mi riportano agli Anni Cinquanta e Sessanta, quando in ogni piazza emiliana, per rimanere in zona, veniva realizzato un edificio piacentiniano per una Cassa di Risparmio che sostituiva l’edilizia “di nessun valore” precedente; o le polemiche immediatamente successive a proposito dei Piani di Risanamento dell’edilizia minore del centro storico di Bologna.
Se si volesse buttarla sul ridicolo, sarebbe facile fare un elenco di esempi di edifici a tutti noti, e sono già stati citati il Palazzo Ducale di Venezia e di Urbino, per i quali l’ipotesi di ampliamento verrebbe considerata una boutade o una follia.
Per il Palazzo dei Diamanti, invece, pare che le cose siano serie, che nessuno si vergogni, che molti architetti abbiano tranquillamente partecipato al concorso, e soprattutto che gli ordini professionali si siano schierati nella difesa corporativa del rispetto delle procedure e dei risultati concorsuali, che torni fuori la solfa della “stratificazione” a cui tutte le città e i monumenti sono storicamente sottoposti.
Verrebbe da dire allora che la situazione è grave, molto grave, ma non è per nulla seria.
‒ Roberto D’Agostino
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