Core House: la casa galleggiante progettata dal PoliTo che sopravvive alle inondazioni
Un concorso internazionale promosso dalla World Bank e dalle Nazioni Unite - UN Habitat, per trovare soluzioni abitative a prova di calamità naturali. Uno dei progetti vincitori è il frutto del lavoro di un gruppo di studenti del Politecnico di Torino.
Le calamità naturali sono ormai all’ordine del giorno, come riuscire a sopravvivere? Sono la World Bank e le Nazioni Unite – UN Habitat, in partenariato con Airbnb, Build Academy e Global Facility for Disasters Reduction and Recovery, a cercare la risposta promuovendo il concorso Resilient Homes Design Challenge, per la progettazione di piccole case modulari, economiche e sostenibili, che possano essere costruite a un costo inferiore ai 10 mila dollari. Ai partecipanti veniva richiesto di considerare un lotto di 400 mq inserito in uno, o in tutti e tre, i possibili scenari dalle caratteristiche ben definite. Il primo riguarda terremoti e tempeste tropicali come cicloni, uragani e tifoni, con una velocità del vento superiore ai 250 km/h, collocando l’edificio su un terreno pianeggiante in isole dal clima caldo d’estate e mite d’inverno; il secondo un terremoto del settimo grado della scala Richter, in luoghi di montagna ed entroterra dalle estati miti e inverni rigidi, con terreni rocciosi dalla lieve pendenza; infine il terzo scenario prevede inondazioni e tempeste tropicali con un vento che supera i 250 km/h, agenti sulle aree costiere dal caldo clima estivo con intense precipitazioni, posizionando la struttura su terreni pianeggianti a 500 m dalla costa. Tra i 9 progetti vincitori che verranno esposti alla World Bank a Washington DC è presente quello del Politecnico di Torino, realizzato da un gruppo di studenti internazionali coordinati dal professore associato Francesca de Filippi, direttore del Centro di Ricerca CRD-PVS su Habitat in the Global South, con Roberto Pennacchio (tecnologia dell’architettura), Matteo Robiglio e Elena Vigliocco con Matteo Gianotti (progettazione architettonica e urbana) e Marco Simonetti (Sistemi di controllo ambientale). Hashim Sarkis, il curatore della prossima 17esima Biennale di Architettura di Venezia, era membro della giuria che ha valutato più di 300 proposte.
IL GRUPPO DI STUDIO
Il progetto vincitore è il frutto del lavoro svolto dai docenti del Final Design Studio, Design within the limits of scarcity, con gli studenti internazionali dell’ultimo anno del Corso di Laurea in Architettura per il Progetto Sostenibile del Politecnico di Torino, mentre la proposta presentata dallo studente Guo Kunqui, ha ricevuto una menzione d’onore. I docenti e i collaboratori hanno seguito e si sono confrontati con gli studenti organizzati in modo da formare un gruppo di progettazione con ruoli, compiti e responsabilità definite: dal team leader, ai responsabili del budget, ai progettisti dei vari aspetti architettonici e tecnologici. “Quando tre anni fa ho proposto di inserire nella programmazione didattica del corso di laurea il tema ‘progettare in condizioni di scarsità’, intendevo stimolare una presa di coscienza e una risposta da parte degli studenti di fronte a temi fortemente attuali e rilevanti per la società e il mondo globale, rendendoli abili a gestire la complessità data da presupposti e obiettivi di diverso tipo (culturali, climatici, economici, sociali, ed ecc.)”, dichiara ad Artribune la docente Francesca de Filippi. “Il tema della scarsità di risorse porta a spingere al massimo la qualità del progetto, pensando a edifici sostenibili in termini ambientali e di costi, incrementabili, culturalmente accettabili, eventualmente autocostruibili (dunque di più facile appropriazione da parte della popolazione), autosufficienti e, in questo caso, anche resilienti e resistenti a eventi catastrofici”. Il progetto tiene in considerazione la pratica del transitional shelter, “ciò significa superare l’idea di ‘campo’, ossia di insediamenti temporanei di rifugiati, e adottare uno schema evolutivo, in una prospettiva che parte dalla soluzione di emergenza e prevede già l’assetto permanente, dove sono previsti le principali strutture e servizi per una vita dignitosa delle persone. Attualmente si stima che la durata media di permanenza in un campo di rifugiati si aggiri intorno ai 17 anni, che per molti paesi equivale a una generazione”.
IL PROGETTO ARCHITETTONICO
“Il concetto iniziale del progetto era di creare moduli indipendenti, ciascuno con una funzione predeterminata, che fossero connessi con un ambiente principale ‘the core’, spazio che cercava e incoraggiava l’incontro familiare e culturale tra la famiglia stessa e la comunità”, afferma ad Artribune Laura Munoz Tascon, studentessa colombiana, team leader del progetto Core House. Le pareti sono studiate in modo da essere rimosse per consentire l’aggiunta di altri moduli favorendo l’espansione dell’insediamento. “Il progetto è una soluzione che prevede l’uso di materiali locali (bambù) e tecnologie ibridate, per contenere i costi e facilitare le pratiche di autocostruzione”, spiega la professoressa de Filippi. “La casa è un edificio autosufficiente, resiliente e sostenibile in grado di resistere alle inondazioni grazie a un innovativo meccanismo di sollevamento realizzato con materiali di recupero. L’edificio sfrutta inoltre i principi dell’architettura passiva per contenere – o meglio, azzerare – l’apporto di energia da impianti”.
– Ilaria Bulgarelli
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