Verso un’architettura eretica. Intervista a Gianluca Peluffo
A Sokhna, in Egitto, sta per essere posata la prima pietra della moschea compresa nel grande piano Il Monte Galala, curato dallo studio italiano Gianluca Peluffo&Partners. Ne abbiamo discusso con il fondatore, che ha scelto come sede per la società lo studio che fu di Lucio Fontana, ad Albissola.
Un progetto ambizioso, in via di realizzazione in Egitto, vede Gianluca Peluffo&Partners protagonista di un piano di sviluppo considerato, in prospettiva, uno dei maggiori centri residenziali nella Regione di Sokhna, lungo la costa egiziana del Mar Rosso. Un’area di circa 2,2 milioni di metri quadrati tra strutture ricettive, residenziali, un polo universitario e una marina sviluppata su circa 1 km di costa: la fondazione, cioè, di una città per circa 30mila abitanti in un deserto montagnoso sul mare, e della sua nuova moschea, commissionati entrambi dalla società egiziana Tatweer Misr. Nel 2016, il progetto de Il Monte Galala si è aggiudicato il Dubai Cityscape Award come miglior masterplan dell’area Medio-Orientale.
CAPIRE IL PROGETTO DELLA MOSCHEA
La Moschea, di 3200 mq per 310 posti preghiera – che vedrà la posa della prima pietra a gennaio 2019 e la fine lavori per marzo 2020 – è un monolite complesso, scultoreo, una struttura a telaio nuda, brutalista, che inverte l’ordine d’importanza dei prospetti, concentrando la sua principale bellezza nel piano di copertura: una distesa di cannon lumière sghembi che inondano l’interno di luce naturale zenitale. Un’architettura espressionista quasi, parzialmente introversa, che esplicita la propria funzione religiosa grazie a due elementi: un alto minareto e una sottile lastra di onice semitrasparente rivolta alla Mecca. Valerio Paolo Mosco la definisce “come ‘architettura parlante’, oggetto che immediatamente e senza infingimenti comunica non solo la sua funzione, ma anche il suo carattere e più che altro il suo carattere in quel luogo. Non è un caso che la scelta sia stata quella di realizzare l’edificio in cemento armato a vista, quasi a voler evocare con la materia grezza, nuda e plastica, l’arido terreno che la circonda, come se fosse un rudere senza tempo in una terra altrettanto senza tempo”. Forte è il contrasto materico e percettivo tra esterno e interno, trattato come un tappeto di colori, uno spazio sacro che invita alla contemplazione e al raccoglimento trascendente. Una rosa del deserto, una roccaforte pensata per durare in eterno. Continua Mosco: “Equilibrio tra figura e astrazione e uso a effetto della luce naturale: ecco i poli su cui si è attestata la migliore architettura sacra moderna e post-moderna e il merito maggiore di Gianluca Peluffo&Partners è quello di essersi posti come fine, quello di riferirsi direttamente a questi due poli, assoggettando a essi tutte le altre questioni che un progetto complesso come questo in esame pone”.
L’INTERVISTA A GIANLUCA PELUFFO
Può approfondire il tema portante del progetto, ovvero il concetto di “chiasma come connessione e dialogo tra orizzonti diversi“?
Provo una grandissima curiosità e interesse per le tematiche evidenziate “sottoposte al futuro” da Merleau Ponty subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Trovo straordinariamente interessante e significativo che allora, dopo la distruzione e la tempesta sull’Europa e la sua sconfitta, il filosofo abbia voluto occuparsi del modo attraverso il quale si costruisce il linguaggio nel bambino e la necessità inderogabile di considerare l’inter-soggettività, il rapporto con l’altro, come elemento centrale del linguaggio stesso e quindi dell’esistenza. La connessione percettiva fra il guardare e il vedere innesca il contatto con l’altro e con il reale, inteso come co-esistenza di ciò che è visibile e ciò che è invisibile. Allora il chiasma è il contatto percettivo fra il singolo e il reale, fra il singolo e la collettività, tra il singolo e ciò che sta oltre il reale fisico. In quanto tale è una co-azione, ovvero il soggetto fa esistere (ed esiste esso stesso) ciò che incontra, vede con la percezione, il muoversi, il descrivere (il linguaggio). Questa idea di inter-soggettività e di compresenza, dentro lo spazio del reale, di corpo e “anima”, sta alla base della nostra idea di Architettura, che è creazione di linguaggio e spazio capace di innescare questo meccanismo percettivo, conoscitivo e co-creativo.
Linguaggio, spazio, architettura: quali connessioni e quali orizzonti?
Il linguaggio è determinazione essenziale: l’edificio, come corpo, parla e mette in azione l’inter-soggettività, e la connessione fra singolo e collettività attraverso la percezione e il movimento nello spazio. Ogni singolo ha un corpo, un’infanzia, una lingua, orizzonti differenti.
L’Architettura, con la sua lingua e il suo spazio, crea le condizioni dell’incontro, della “fusione” di questi orizzonti diversi. Per questo sono il Linguaggio e lo Spazio dell’Architettura ad avere un ruolo direttamente e inderogabilmente politico: la connessione, il chiasmo, la fusione di orizzonti significano la creazione del cittadino.
Contesto, materiali, cultura. Come si affronta l’architettura religiosa nel XXI secolo?
Se mi rifaccio proprio al tema della compresenza nell’architettura di corpo, materia e anima, di visibile e invisibile, allora l’edificio religioso è uno dei luoghi per eccellenza di chiasma e fusione di orizzonti: se da una parte è naturale la spinta, nel ragionare di spiritualità, verso un’idea di spazio che potremmo definire “astratta”, dall’altra è altrettanto forte la necessità di immaginare il corpo come protagonista dello spazio stesso, e quindi il dialogo verso la materialità e la sua “sensorialità” percettiva. L’Architettura religiosa deve tentare la sintesi sincretica per eccellenza fra corporeità e spiritualità. Questi anni di lavoro progettuale e di insegnamento nel mondo arabo mi hanno permesso di percepire, nel quotidiano, nella naturalezza del giorno per giorno, quanto la corporeità e la singolarità del credente, attraverso i due temi dell’orientamento e dello spazio “a misura” del tappeto, sia connessa allo spirito e a una collettività immensa come quella di una religione diffusa.
Provenendo da una matrice cristiana, come si progetta nel rispetto di quella islamica, allora?
Tutte le tematiche, relativamente alla religione cattolica, successive al Concilio Vaticano II (1963), con l’idea eucaristica di portare “il popolo dei fedeli” al centro dello spazio comunitario (fisico e virtuale) della Chiesa, ha messo in crisi l’Architettura religiosa cristiana, che non era costituita di centralità, ma di direzionalità, narrativa e devozionale, producendo sforzi, raramente riusciti, di unire il concetto di centralità dello spazio, e di eucarestia, di avvicinamento a Dio.
Nella religione musulmana, come dicevo, il singolo è profondamente individuo (con un “suolo” personale, il tappeto) e, nello stesso tempo, attraverso la direzione univoca ed essenziale di questo suolo, è anche appartenente a una collettività che “tende” a un luogo specifico nella preghiera. Allora il tema del progetto è quello di mettere in forma spaziale, di linguaggio e simbolica, questa compresenza di corpo, spirito, singolo, collettività, appartenenza e silenzio (l’assenza del figurativo porta direttamente alla parola, letta, ascoltata), attraverso la luce, che “accarezza”, che “riempie” lo spazio e “significa”.
Egitto: come si lavora laggiù? Rispetto al clima asfittico dell’architettura italiana in che modo la società egiziana sta affrontando cambiamento e voglia di futuro?
Un Paese di 100 milioni di abitanti, concentrati in una parte minima del territorio, il mitico Nilo. Crescono di circa 2,5 milioni di abitanti all’anno. Nelle riunioni di lavoro, che sono fatte di moltissimi consulenti e tecnici, io sono quasi sempre il più vecchio. Ecco. Un Paese complesso, con enormi difficoltà e contraddizioni; ma giovane, con un ruolo geopolitico delicatissimo. Se si lavora lì, non si possono fare né il turista né il colonialista. Il lavoro di questi tre anni è stato di portare il loro concetto di linguaggio dell’architettura, da un internazionalismo provinciale e da un regionalismo importato (città e complessi in stile vittoriano, toscano, da isola greca), a un linguaggio genealogico contemporaneo, ovvero di appartenenza e futuro.
Esiste ancora un plusvalore nei progettisti nostrani esportati all’estero?
Nelle prime riunioni abbiamo capito che per la loro cultura di oggi, parlare ad esempio di Fathi significava toccare il loro orgoglio, ma anche parlare loro di un mondo povero che non vogliono ri-vivere. Allora il tema è stato quello di non tradire il dovere della contemporaneità, di essere coscienti di avere messo le mani in una cultura millenaria ma complessa e senza memorie attive, fatta di miti vivi nel turismo e nell’orgoglio, ma non nella lingua. L’enorme necessità abitativa, a ogni livello di classe sociale, è una spinta forte e delicatissima da gestire. Noi stiamo cercando di costruire con loro e per loro una lingua nuova ma appartenente. Ci sembra di trovare ascolto. Oltre che grande rispetto della nostra cultura. Il progetto della Moschea, partito un anno fa, credo sia la messa in forma di tutti questi aspetti.
Tre parole per descrivere il progetto
Luce. Materia. Spirito.
Quali prospettive per il 2019 dello studio?
Il primo anno e mezzo della nuova struttura, dei nuovi soci, è stato energetico, emozionante, pieno di progetti. Avere scelto la Provincia della Provincia, il Sud del Nord, avere obbligato alcuni di loro a una sorta di servizio militare, anche lungo spero, ma dentro a un mondo impregnato di arte, di saper fare, di internazionalità legata alla vita quotidiana, tutte le cose che nello studio di Lucio Fontana ad Albissola si respirano, è stato un voler ri-nascere non personalmente, ma come Architettura Italiana capace di tornare a insegnare nel mondo. Questo è il nostro obiettivo, la nostra convinzione. Sono convinto che sia necessaria un’azione eretica e sciamanica, lontana nel quotidiano da Milano, o Miami, ma profondamente nel mondo con la visione. Per questo uniamo progetti in Egitto, in Marocco, in Sicilia o in Veneto, in Toscana o in Puglia, con progetti nel nostro territorio. Insegniamo a Milano e a Marrakech. I prossimi due anni sapremo che cosa potremo dire nell’Architettura Contemporanea.
E le sue, invece?
Personalmente mi sento come Paul Weller al primo cambio di vita musicale, quando sciolse i Jam e fondò gli Style Council, ma con il doppio dei suoi anni, e per questo ho soci e collaboratori per un futuro che immagino più lungo e stabile. Vorrei davvero dessimo voce, forza e forma a un’idea di architettura eretica perché libera dall’internazionalismo provinciale e passivo e dalla comunicazione servile, genealogica perché non coloniale, condivisibile perché non cinica, politica perché non conformista.
‒ Giulia Mura
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