Maidan Tent. Un’agorà per i migranti del campo profughi di Ritsona
Da meno di un mese, il campo profughi greco di Ritsona ospita un’architettura dalle forme morbide e accoglienti. Un “fiore” di tessuto sotto i cui petali pulserà la vita sociale ritrovata di posti di frontiera come questo. Il progetto è nato su impulso di un gruppo di giovani italiani, architetti e non.
Oggi Maidan Tent è un gesto concreto per chi crede nelle ragioni della solidarietà più che in quelle degli sgomberi, per coloro che comprendono il dramma esistenziale connesso all’essere rifugiato in un Paese straniero, per tutti i rifugiati che si sentono fragili e senza risorse mentre aspettano di capire quale nuova vita li attende nello stato che li ospiterà. Infatti, dopo un intensissimo lavoro di squadra durato quasi due anni, in cui i giovani professionisti che hanno creduto nella loro idea hanno messo le basi per dare concretezza, attraverso organizzazioni non governative e crowdfunding, a quella che sarebbe potuta rimanere solo un’utopia, il primo prototipo di tenda-piazza è stato installato al centro del campo di Ritsona, in Grecia. “Passeranno settimane” ‒ dice il giovane architetto Visconti di Modrone, motore di tutta l’impresa ‒ “prima che i residenti nel campo comprendano a pieno il potenziale della tenda. Ma i bambini ne sono già entusiasti e la chiamano “nuvola gonfiabile”. In effetti questa “astronave” è stata realizzata solo da poco tempo, ma la comunità aveva preso attivamente parte alla fase di grounding dell’idea dei giovani architetti, e ora, dopo aver democraticamente discusso su che attività collettive potessero avere luogo in questo spazio polifunzionale, è il momento di impossessarsene davvero e, con essa, di riprendersi la propria dignità. In che modo? Attraverso la costruzione di una socialità nuova, precaria se vogliamo, ma sempre indicativa di un sistema organizzato di persone, qui unite dalla tragedia personale dall’abbandono del loro Paese verso l’ignoto.
ARCHITETTURA PER L’EMERGENZA
Maidan Tent, la tenda-piazza, è una tensostruttura di quasi 200 mq di superficie coperta; di forma circolare, perché inclusiva e priva di direzioni privilegiate, è stata ideata da Bonaventura Visconti di Modrone con la collaborazione di Leo Bettini Oberkalmsteiner e di altri giovani che hanno saputo ben contestualizzare l’intero progetto, cercare partner e sensibilizzare l’opinione pubblica. Nell’ordine: Giovanni Dufour, grafico; Simon Kirchner, architetto; Giuliano Limonta, psichiatra; Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti, fotografi; Clementina Grandi, organizzatrice di eventi; Francesca Oddo, addetta stampa. Come per altri progetti di “architettura per l’emergenza”, a costruire Maidan Tent ancor prima che concretamente, e sempre a fianco dei suoi ideatori, è stata la volontà condivisa di trovare una risposta spaziale a bisogni sociali, sia da parte di organizzazioni non governative sia degli stessi rifugiati, che hanno cercato in questo progetto una forma di riscatto dalla condizione di stranieri senza riferimenti, dai diritti incerti e dal futuro ancor più precario. “La componente emotiva, di sicurezza e protezione, di esperienza culturale, ludica e religiosa garantita dagli spazi comuni organizzati è fondamentale per la ricerca di una stabilità perduta, difficile da ricostruire in un contesto privo di luoghi di aggregazione riconosciuti come tali dalla comunità. Per cui uno spazio pubblico organizzato è un’esperienza basilare e non un mero valore aggiunto al quale poter rinunciare”, ha sottolineato Giuliano Limonta, lo psichiatra del team.
FARE COMUNITÀ
A lui si deve l’affiancamento competente della piccola comunità di Ritsona, coinvolta nel progetto due anni fa, che ha attivato un processo democratico di pianificazione delle attività all’interno della tenda partendo da uno stato di prostrazione psicologica profondissima. “Alcuni rifugiati erano arrivati qui forti e con delle speranze per un futuro migliore: ora hanno smesso di uscire, dormono tutto il giorno, fumano senza sosta. La gente è spenta…”, raccontò a Bonaventura, due anni fa, un responsabile della ONG austriaca ECHO. La gente arrivata da scenari di guerra e miseria non ha solo bisogno di cibo e cure, ma di “fare comunità”.
Il resto della storia lo conosciamo, anche se, visto che la tenda è stata montata solo dallo scorso novembre, non fa ancora parte della consuetudine dei rifugiati di Ritsona. I progetti che via via si vanno affacciando, in quello che ormai è diventato un workshop permanente di idee per la tenda, sono i più vari; i promotori sono tutti gli abitanti del campo, comprese le donne: partite da vedere insieme, chiacchiere, spettacoli, ma anche un mercato. Nella tenda-piazza si possono svolgere tutte, e alcune anche nello stesso momento, visto che lo spazio ha delle partizioni che circoscrivono gli ambiti e li rendono più accoglienti, intimi, meno “agorafobici”, per l’appunto.
IL RUOLO DEL CENTRO DI RICERCA LEAP
Adesso entra in gioco un altro degli attori che sinergicamente hanno dato avvio a questo piccolo miracolo della sociologia: il LEAP, Laboratory for Effective Anti-poverty policies, un centro di ricerca dell’Università Bocconi di Milano, sponsorizzato dalla Fondazione Invernizzi. Completata l’installazione della Maiden Tent prototipo, nei prossimi mesi effettuerà le valutazioni di efficacia mediante il monitoraggio delle attività che riusciranno a prendere avvio in questo spazio collettivo, per valutare l’impatto di tale iniziativa sull’intervallo di vita che un rifugiato deve passare nel campo prima di essere destinato alla sua nuova esistenza.
Il coinvolgimento delle persone nel campo, in ogni momento del progetto e della costruzione della tenda, ha voluto veicolare inoltre un messaggio fondamentale per strutture come quelle che ospitano dei profughi: la tenda, pur diventando teatro della socialità interna al campo, non è permanente, ma fluida, smontabile e ricostruibile dove e quando occorra. Così dovrebbe essere vissuto dai rifugiati il momento di attesa nel campo: temporaneo, di passaggio. Con l’augurio che, come per la Maiden Tent, ci sia l’happy ending per più storie possibili fra quelle che sono passate da lì.
‒ Aurelia Debellis
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