Architetti d’Italia. Alberto Cecchetto, il sarto
Come non farsi schiacciare dall’eredità del passato, guardando al futuro? Alberto Cecchetto sembra aver trovato la chiave, come spiega Luigi Prestinenza Puglisi nel nuovo capitolo della saga dedicata agli architetti italiani.
Mi piace pensare alla recente storia dell’architettura come a un viaggio in cui i partecipanti affrontano le difficoltà del cammino dividendosi in cinque gruppi. Il primo individua sentieri e percorsi. Svolge un lavoro che può portare, a seguito di scelte sbagliate e avventate, sull’orlo di burroni e precipizi. Ma senza il quale difficilmente il viaggio potrebbe continuare. Il secondo gruppo richiede informazioni al primo per verificare i dati e organizzare accorgimenti che permettano a tutti di proseguire in relativa sicurezza. Il terzo ha imparato dal secondo come si fanno le cose. Le ripete, senza innovarle e anche a costo di trasformarle in una routine che corre il rischio di non essere all’altezza delle sfide successive. Il quarto gruppo è sfiduciato e affaticato e propone di fermarsi. Il quinto è terrorizzato, vede solo pericoli, maledice il viaggio e vuole tornare indietro.
Alberto Cecchetto, a mio avviso, non fa parte del primo gruppo ma del secondo, e già per l’Italia è una scelta temeraria. Architetto veneziano, come ama definirsi nella quarta di copertina di una monografia a lui dedicata, ha studiato allo IUAV e avuto come maestro Giancarlo De Carlo, un personaggio che ha insegnato in controtendenza, se non in antitesi, rispetto al filone storicista e reazionario prevalente nella facoltà. De Carlo, poi diventato amico, ha coinvolto Cecchetto nell’esperienza dell’Ilaud, lo Intenational Laboratory of Architecture and Urban Design, che in 27 anni di attività (dal 1976 al 2003) ha avuto il merito di accogliere architetti da tutto il mondo, portando in Italia le migliori esperienze internazionali di progettazione urbana.
All’influsso di De Carlo aggiungerei quello di Carlo Scarpa: non tanto nella esasperata ricerca del dettaglio quanto nella consapevolezza che ogni tema, alla scala urbanistica, edilizia o di interni, alla fine si giudica in funzione della qualità formale raggiunta. Una bella giustificazione sociologica, funzionale o in termini di costo non basta; ciò che importa è la densità estetica, e quindi poetica, dell’opera: la forma, lo spazio, i materiali, la luce. Pochi architetti italiani hanno una sensibilità per questi aspetti qualitativi della progettazione così spiccata come quella che Cecchetto ha saputo dimostrare nel corso della oramai lunga carriera, cominciata nel 1975, anno della laurea.
IL FUTURO
In controtendenza rispetto ai colleghi veneziani, che la hanno in grande dispetto, usa spesso la parola futuro. Pensare il futuro, sostiene, è indispensabile per poter giudicare il presente e per farsi un’idea del passato. Viviamo infatti in un Paese dove la peggiore retorica non fa altro che ripetere che bisogna intendere il passato come un punto fisso di riferimento al quale perennemente tornare. E che rifiuta di considerare, invece, la storia come una costruzione della nostra progettualità e quindi soggetta al corso variabile delle interpretazioni. Un atteggiamento, questo, che ci priva della responsabilità di costruire scenari in cui “la coscienza del passato e la libertà convivano”. Insomma, per dirla in modo più semplice: nessuna storia può darci ricette definitive. Siamo noi, attraverso la capacità di lavorare sui nostri preconcetti, che ci assumiamo la responsabilità del cambiamento che non possiamo che collocare nel futuro.
Come è possibile, però, intervenire come portatori di libertà, in un Paese quale l’Italia dove regole, codici e norme sono divenuti una gabbia infernale e priva di senso? Come portare qualità quando abbiamo abdicato dalla cultura del progetto per diventare custodi di uno status quo che neppure ci soddisfa?
E, infine, come vivificare la grande tradizione italiana e veneziana, fatta di colori, di materie, di forme che trasformano anche i piccoli oggetti in un nuovo paesaggio urbano? Come recuperare l’arte di costruire un luogo?
Il segreto di Cecchetto è, a mio avviso, il riuscire in ogni progetto a dare risposte concrete a queste domande, evitando di trasformarle in statement retorici, in astratte regole di valore universale, cioè in quel bla bla interminabile che si nutre, invece che di architettura costruita, di pubblicazioni, di scritti teorici, di dichiarazioni di principi e di intenti che, però, poi, poco hanno a che vedere con la concretezza del fare.
Cecchetto è tra i pochi architetti italiani prossimi ai settanta (è nato nel 1949 ed è quindi a cavallo tra la generazione dei Fuksas e dei Cellini, nati nel 1944, e dei Boeri e dei Zucchi, nati rispettivamente nel 1956 e 1955) che può vantarsi di realizzazioni che ci restituiscono una natura migliore di quella che gli era stata consegnata. Come avviene, per esempio, nelle Cantine Mezzocorona a Trento. Mostrano la capacità con la quale ha saputo utilizzare tecniche e metodologie decostruttiviste, e cioè il lavoro dell’avanguardia, evitando un gioco di volumi spezzati fine a sé stesso, per acquisire invece una valenza ambientale in grado di mettere l’edificio in sintonia con l’ambiente circostante.
UN PROGRESSISTA
Da allievo di De Carlo, Cecchetto è molto attento all’uso che viene fatto degli spazi. I quali sono caratterizzati dall’ospitare attività non particolarmente soggette al divenire delle mode. I bisogni urbani delle persone ‒ nota l’architetto in uno scritto ‒ i modi di camminare, sedersi, cercare l’ombra o il sole rimangono in gran parte immutati con il passare degli anni. Da qui il fatto che le architetture non hanno mai il bisogno di essere re-inventate continuamente, quantomeno per quel che riguarda ampi aspetti della loro organizzazione. Lo stesso si può dire per i materiali. Se alcuni sono nuovi e hanno importanti qualità che meritano di essere sperimentate, altri sono noti, conosciuti e apprezzati da tempo anche immemorabile. Basta per tutti citare il legno. E la loro presenza, all’interno del progetto, ha la funzione anche di tranquillizzare l’utente rispetto a sperimentazioni destabilizzanti. In questo senso Cecchetto non è un rivoluzionario, è un riformatore che crede nel progresso continuo e senza strappi traumatici. In altri tempi si sarebbe detto: un progressista. Nei suoi lavori le forme hanno sempre quell’eleganza e quella grazia che le rende piacevoli e accette. In questo senso, fa parte di un gruppo di élite di architetti italiani (che io chiamerei i Sarti dell’architettura, intesa come un impeccabile abito su misura) che hanno mostrato di sapersi muovere con grande abilità e prudenza all’interno delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie costruttive e dal riutilizzo intelligente delle vecchie. Mi vengono in mente Renzo Piano, Michele De Lucchi, Cino Zucchi. Ma con la differenza, nel caso di Cecchetto, di un più attento ascolto alle ricerche formali europee, soprattutto per quel che riguarda l’uso di geometrie non ortogonali e dei nuovi materiali.
Dove, a mio avviso, Alberto Cecchetto rende il meglio di sé è negli interventi in cui si confronta con le preesistenze, soprattutto in territorio lagunare e penso, ad esempio, ai numerosi progetti da lui gestiti con grande perizia nell’Arsenale di Venezia.
Il futuro, dicevamo, è la chiave per comprendere il passato. Ne deriva che i restauri proposti non sono mai ricostruzione à l’identique, come ci hanno abituati troppi interventi succubi dei diktat delle Soprintendenze. Sono oggetti contemporanei con una densa stratigrafia storica. In cui l’antico è un materiale di costruzione del nuovo e non viceversa. A tal fine i giochi tra colori differenti, grane contrastanti e materiali con luminosità e comportamenti antagonisti diventa prevalente e appare evidente l’influenza della lezione di Scarpa, sia pure con la distanza imposta da due caratteri diversi, uno sicuramente più ossessivo, l’altro più persuasivo.
È all’Hotel Lido Palace a Riva del Garda che la metodologia di intervento di Cecchetto sembra manifestarsi in tutta la sua evidenza. Il corpo principale dell’hotel è lasciato pressoché intatto all’esterno per aggiungervi tre volumi. Uno davanti ‒ in ferro corten e con una forma libera ‒per accogliere ristoranti e piscine; uno sul retro ‒ vetrato ‒ per sostare idealmente nel parco, prima di entrare nell’albergo; uno in alto ‒ vetrato ‒ per accogliere camere con vista sul cielo. L’edificio neoclassico è stato, ricorda il progettista, rispettato nella sua unitarietà perché le aggiunte sono chiare ed evidenti. Ma, da che era protagonista, diventa il fondale di una scenografia contemporanea. Si invertono, insomma, i ruoli e, nella lotta tra passato e futuro, prevale il futuro, sia pure attraverso un’idea lussuosa, ampia ed elegante.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
Architetti d’Italia #1 – Renzo Piano
Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
Architetti d’Italia#9 – Michele De Lucchi
Architetti d’Italia#10 – Vittorio Gregotti
Architetti d’Italia#11 – Paolo Portoghesi
Architetti d’Italia#12 – Mario Cucinella
Architetti d’Italia #13 ‒ Mario Bellini
Architetti d’Italia #14 ‒ Franco Purini
Architetti d’Italia #15 ‒ Italo Rota
Architetti d’Italia #16 ‒ Franco Zagari
Architetti d’Italia #17 ‒ Guendalina Salimei
Architetti d’Italia #18 ‒ Guido Canali
Architetti d’Italia #19 ‒ Teresa Sapey
Architetti d’Italia #20 ‒ Gianluca Peluffo
Architetti d’Italia #21 ‒ Alessandro Mendini
Architetti d’Italia #22 ‒ Carlo Ratti
Architetti d’Italia #23 ‒ Umberto Riva
Architetti d’Italia #24 ‒ Massimo Pica Ciamarra
Architetti d’Italia #25 ‒ Francesco Venezia
Architetti d’Italia #26 ‒ Dante Benini
Architetti d’Italia #27 ‒ Sergio Bianchi
Architetti d’Italia #28 ‒ Bruno Zevi
Architetti d’Italia #29 ‒ Stefano Pujatti
Architetti d’Italia #30 ‒ Aldo Rossi
Architetti d’Italia #31 ‒ Renato Nicolini
Architetti d’Italia #32 ‒ Luigi Pellegrin
Architetti d’Italia #33 ‒ Studio Nemesi
Architetti d’Italia #34 ‒ Francesco Dal Co
Architetti d’Italia #35 ‒ Marcello Guido
Architetti d’Italia #36 ‒ Manfredo Tafuri
Architetti d’Italia #37 ‒ Aldo Loris Rossi
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Architetti d’Italia #39 ‒ Gae Aulenti
Architetti d’Italia #40 ‒ Andrea Bartoli
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Architetti d’Italia #52 ‒ Fabrizio Carola
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