Architetti d’Italia. Massimo Mariani, il radical

Nuovo appuntamento con gli architetti d’Italia di Luigi Prestinenza Puglisi. Stavolta i riflettori si accendono su Massimo Mariani.

Vi sono almeno tre ragioni per dedicare un profilo a Massimo Mariani. La prima è che è il classico architetto bravo, anzi bravissimo, di provincia, conosciuto dagli intenditori e trascurato dal circuito mediatico. La seconda ragione è che gli edifici di Mariani non si confondono con l’ambiente, anzi rivendicano il loro carattere di oggetti progettati e disegnati. Il terzo motivo è che dentro la scorza dura delle sue realizzazioni si nasconde una raffinata ricerca spaziale fatta di colori e di trasparenze.
Sul primo punto c’è poco da dire. Le riviste specializzate hanno immense colpe. Vanno dietro, per ovvi motivi, ai grandi personaggi ma non raccontano le cronache di architettura, dando la sensazione che a costruire opere rimarchevoli siano solamente le archistar. Non è così. In Italia, la provincia è particolarmente vitale e in alcune regioni il contributo maggiore alla ricerca architettonica è dato da un tessuto più o meno interconnesso di professionisti radicati nel territorio. Progettisti che hanno elaborato proprie e originali strategie, come appunto è il caso di Massimo Mariani in Toscana, di Daniele Corsaro in Puglia, di Rosario Cusenza e Maria Salvo in Sicilia, di Marcello Guido in Calabria, di Massimo Pica Ciamarra in Campania.
È un atteggiamento che viene da lontano. Anche in passato la miopia critica ha portato a sopravvalutare autentiche nullità ben inserite nel circuito e a ignorare grandi architetti. Penso per esempio a quanto sia stato grave dimenticare Oreste Martelli Castaldi, Alvaro Ciaramaglia o Vittorio Giorgini (non sapete chi sono, vero? Bene, chiediamoci perché, visto il loro valore). Oppure ha portato a riconoscimenti tardivi e a mezza bocca: basti citare la scarsa attenzione verso un architetto particolarmente rilevante come Lucio Passarelli, che ha realizzato una delle palazzine più importanti degli Anni Sessanta, o il tardo apprezzamento del valore di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, per anni completamente ignorata, con la sola esclusione della rivista Abitare diretta da Italo Lupi.

Massimo Mariani Architetto, BCC di Fornacette, Sede di rappresentanza, Fornacette (Pisa), 1995. Photo credits Alessandro Ciampi

Massimo Mariani Architetto, BCC di Fornacette, Sede di rappresentanza, Fornacette (Pisa), 1995. Photo credits Alessandro Ciampi

ECOLOGIA E ARCHITETTURA

La seconda ragione merita un maggiore approfondimento. Oggi va di moda una certa visione impressionistica dell’ecologia: quella che punta a confondere edificio e ambiente circostante. Non si tratta di un male. Anzi. Ma lo diventa nel momento in cui viene vista come l’unica ricetta possibile per costruire. I boschi verticali sono interessanti, i progetti nascosti tra i dislivelli del terreno meritano di essere studiati, le palazzine dove predomina il legno sono rimarchevoli. Ma non sono tutta l’architettura possibile, né possono esaurirla. Anzi, quando diventano ossessioni che servono a contrastare una temuta cementificazione del territorio, sono delle solenni stupidaggini. Non ci vuole una gran cultura per ricordare che la gran parte delle architetture del passato da noi apprezzate sono oggetti edilizi che si oppongono alla morfologia del territorio circostante, realizzandone una nuova e non meno interessante. Se Italia Nostra e la banda dei catastrofisti antimoderni volesse essere conseguente, dovrebbe chiedere la demolizione di templi greci, piramidi egizie se non di intere città. Inoltre non possiamo cancellare interi periodi della nostra storia architettonica, come, per esempio, quelli che vanno dagli Anni Cinquanta ai Settanta, solo perché correvano dietro al mito dei grandi interventi e delle macrostrutture.
Massimo Mariani, formatosi nella scuola radical fiorentina, non pratica l’ecologia da scomparsa. Crede negli edifici, nella loro consistenza formale, nel loro essere diversi dalla natura circostante. Sa che il dialogo non avviene necessariamente per mimetismo ma per contrasto e dissonanza. Crede, insomma, a quello che un tempo si sarebbe definito lo specifico architettonico. I suoi edifici hanno una forte carica oggettuale e sono organizzati secondo regole geometriche che poco hanno a che vedere con le forme della natura. Anzi sono costruiti seguendo insieme il principio della consonanza e della dissonanza.

GLI SPAZI DI MASSIMO MARIANI

La terza ragione è che Massimo Mariani è un magico realizzatore di spazi. Non dobbiamo infatti dimenticare che i suoi riferimenti sono stati Alessandro Mendini ed Ettore Sottsass. Cioè due progettisti che hanno avuto il merito di aver messo a soqquadro il modo di progettare funzionalista, praticando il precetto di Robert Venturi della progettazione complessa e contraddittoria. Da qui la destrutturazione dei corpi edilizi, l’introduzione del principio di contrapposizione dialettica, il ricorso all’ironia, l’uso del colore. Non sempre e non tutti questi insegnamenti ‒ basta pensare alla lunga stagione post moderna ‒ hanno prodotto buoni risultati, nel senso che all’ironia si è sostituita una bolsa retorica, spesso orientata verso impossibili recuperi della storia (se la fai a pezzi, poi, questa storia, come la puoi recuperare?). Mariani, invece, a mio avviso, ha saputo afferrarne l’aspetto migliore capendo che un edificio ben riuscito deve sempre metterci di fronte a un gioco complesso, polisenso e quindi intimamente contraddittorio. Se l’esterno è duro, l’interno deve essere morbido. Se è un volume, l’interno sarà una sequenza fluida di spazi. Se fuori è monocromo, dentro potrà dilagare il colore. Se il prospetto ripete meccanicamente un modulo, qualunque esso sia, l’interno si muoverà con più libertà. E poi l’edificio ospiterà al suo interno l’arte, gli oggetti di design, per diventare un museo che racconta lo spazio, nei suoi modi possibili ‒ architettonici, pittorici e scultorei ‒ di essere. In questo senso anche il fuori scala di un oggetto, di un componente o di un lacerto pop può essere utile.
Prendiamo, per esempio, la sede direzionale della Banca di Pisa e Fornacette. La costruzione ha un volume inusuale, sembra una parodia dell’edificio con il tetto a capanna, ma alla fine se ne stacca perché rivestito con un unico materiale metallico. Si presenta come un volume compatto, ma poi è bucato come una gruviera. Appare duro e metallico mentre all’interno è un susseguirsi di spazi leggeri e colorati che ricordano l’architettura minimalista. È, come accennavamo, un groviglio di contraddizioni gestite da una regia attenta, abile e formalmente sicura.
Del resto, Massimo Mariani rivendica con orgoglio la propria appartenenza alla cultura architettonica della Firenze degli Anni Settanta. Si è laureato con Leonardo Savioli, uno dei protagonisti del brutalismo e del neoespressionismo, e ha collaborato con Remo Buti, esponente del design radicale.

IL BOLIDISMO

L’altra esperienza che lo segna è il bolidismo. Tra i sedici fondatori, oltre a Mariani stesso, vi sono Pierangelo Caramia, Dante Donegani, Stefano Giovannoni, Massimo Iosa Ghini.
Il bolidismo si rifà all’eredità del Futurismo, alle ricerche sulle forme dinamiche che, a partire dagli Anni Trenta, diedero in America l’avvio al cosiddetto streamline style, e, infine, all’immaginario pop e al mondo dei fumetti: “Il bolidista” ‒ recita il manifesto del 1986 ‒ “è l’avanguardia di se stesso”.
Avremo modo con altri profili di ritornare ad alcuni di questi protagonisti, in particolare al più noto del gruppo, Massimo Iosa Ghini. Ciò che adesso è importante sottolineare è che in questa Italia oggi assetata di ecologia e di rimpianti per l’antico, il vecchio, l’ammuffito e la tradizione, in questa Italia dove se si apre un ristorante lo si chiama Antica Locanda o Vecchia Macina, in questa Italia dove si beffeggia chi adopera le parole Moderno e Contemporaneo, c’è stato un tempo in cui ci si innamorava delle automobili da corsa, di quelle magnifiche Ferrari o Maserati che oggi forse reputiamo infantili oggetti del desiderio per miliardari cinesi e petrolieri arabi. E però questo amore, oltre alle magnifiche Ferrari e Maserati, ha prodotto una civiltà del design che ha saputo rinnovarsi, producendo sin anche biciclette ecologiche, e che rifiuta di essere seppellita dal verde e dall’impressionismo architettonico del politically correct.
Massimo Mariani, oltre a essere architetto, è anche un artista e un autore di deliziosi oggetti-scultura, alcuni realizzati con le zucche. Sono manufatti colorati con colori vivaci che captano la nostra curiosità, sollecitando i nostri sensi. Biologici perché fatti con prodotti della natura, ma trattati secondo la spietata logica dell’artefatto. A cosa servono? A nulla o a ospitare un fiore. O meglio a ricordarci che sono le cose che non servono a nulla le più importanti a mantenere il fragile equilibrio della nostra esistenza. In questo senso Massimo Mariani è uno dei pochi architetti autenticamente radical oggi in circolazione. In un momento in cui i progettisti più integrati nel sistema cercano di fare apparire il radicalismo come tutt’altra cosa. In questo senso, Massimo Mariani corre il rischio di essere l’ultimo dei Mohicani. Credo, anzi ne sono certo, che non gli si possa fare complimento migliore.

‒ Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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