Architetti nella pubblica amministrazione. Dal Regno Unito l’esperienza di Public Practice
“Corriamo il rischio che l’architettura divenga un lusso: Public Practice vuole invertire questa rotta”, ha raccontato Finn Williams ad Artribune, tracciando un bilancio del primo anno di attività di Public Practice. Un modello da esportare anche in Italia?
Co-curatore del British Pavilion alla Biennale Architettura 2016, Finn Williams nel 2017 fonda Public Practice, impresa sociale non profit che inserisce architetti all’interno delle pubbliche amministrazioni londinesi per migliorare la qualità dell’ambiente costruito. Un’iniziativa segnalata da Dezeen e dall’Architects’ Journal fra le innovazioni in architettura da tenere d’occhio nel 2019. Lo scorso febbraio Williams è stato protagonista con gli architetti Alison Crawshaw e David Knight (DK-CM) del quarto appuntamento di Brave New World: New Visions in Architecture, il programma di Architettura della British School at Rome curato da Marina Engel, che nei mesi passati ha portato a Roma Reiner de Graaf, Phineas Harper e il collettivo Assemble. E che il prossimo 9 maggio, per l’ultimo appuntamento prima della pausa estiva, presenterà la mostra Mean Home con una tavola rotonda insieme a Jack Self (REAL), Adam Nathaniel Furman e Giacomo Ardesio di Fosbury Architecture, presieduta dalla co-fondatrice dello studio Labics, Maria Claudia Clemente.
L’INTERVISTA
Nel 2017 con Pooja Agrawal hai fondato a Londra Public Practice, un’organizzazione non profit che facilita l’inserimento di una nuova generazione di architetti, urbanisti e pianificatori all’interno delle amministrazioni locali. Com’è nata questa idea?
L’idea di Public Practice risale al 2008, quando, deluso dai limiti del settore privato, decisi di vedere se, lavorando a monte, fosse stato possibile avere più influenza sull’ambiente costruito: passai al settore pubblico, nel Council di Croydon a South London. È la decisione migliore che abbia mai preso: mi sono trovato a lavorare in un team di straordinario talento, con la libertà di sviluppare un programma radicale di progetti pubblici. Sono poi andato a lavorare con Pooja Agrawal per la Greater London Authority: qui abbiamo scoperto come anni di austerità e decenni di deregolamentazione avessero decimato le capacità del governo locale. La percentuale di architetti che lavorano nel settore pubblico nel Regno Unito è scesa dal 49% nel 1976 a meno dell’1% nel 2016: Public Practice è un modo per ricostruire la capacità del settore pubblico di pianificare in modo proattivo.
Come funziona concretamente?
Reclutiamo esperti dell’ambiente costruito – architetti, urbanisti, pianificatori – a qualunque punto della loro carriera per placement di un anno presso municipalità locali. Gli associate di Public Practice trascorrono il 90% del tempo lavorando sulle criticità urbane e sociali della loro municipalità; nel restante 10%, invece, si riuniscono per elaborare un programma di ricerca e sviluppo comune. I nuovi approcci che emergono da questa ricerca sono poi condivisi con le autorità coinvolte, così da accrescere nel lungo periodo le conoscenze e le competenze del settore pubblico.
Il primo anno di attività di Public Practice si è appena concluso: qual è il bilancio?
Siamo stati molto fortunati: i 17 associate che abbiamo selezionato fra gli oltre 200 candidati si sono dimostrati straordinariamente talentuosi ed eterogenei. Ovviamente nel corso dell’anno non tutto è stato facile: molti di loro sono stati i primi architetti a operare in alcuni municipi e ci hanno confidato che senza la formazione, il supporto e il tutoraggio offerto da Public Practice avrebbero abbandonato presto il loro incarico. Così, se inizialmente la maggior parte degli associate non aveva in mente una carriera nel settore pubblico, ora ben 15 su 17 hanno intenzione di rimanerci!
E come è andata con le autorità?
Municipalità come Epping Forest e Havering, il cui associate di Public Practice è stato il primo esperto di progettazione in house, ci stanno ora chiedendo di trovare altri urban designer, architetti, paesaggisti ed ecologi per formare gruppi di placemaking attorno al loro primo associato. In effetti, l’interesse da parte delle autorità è stato talmente grande da indurci a raddoppiare le dimensioni della seconda coorte di associate e a espandere il nostro raggio di azione ad altre regioni – forse addirittura altri Paesi – nel prossimo anno.
Come ha raccontato Koolhaas nella sua mostra Public Works alla Biennale di Venezia 2012, l’Europa ha una lunga tradizione di architetti al servizio del settore pubblico. C’è un modello in particolare a cui vi siete ispirati?
Nel Regno Unito abbiamo avuto alcuni modelli straordinari di “public servant”: da Sidney Cook nella municipalità di Camden e Ted Hollamby in quella di Lambeth, fino a Owen Fleming al London County Council. Furono promotori di coraggiose culture progettuali, il più delle volte passate in sordina, e oggi finalmente riconosciute – ne è un esempio l’assegnazione della RIBA Gold Medal a Neave Brown lo scorso anno. Ma l’ispirazione più diretta per il modello e la filosofia di Public Practice proviene dalla Svezia. È qui che negli Anni Trenta del Novecento fu fondato Kooperativa Förbundets Arkitektkontor, studio di architettura cooperativo che ha riunito molti dei più brillanti architetti del Paese per lavorare, in relativo anonimato, su edifici e spazi quotidiani come scuole, alloggi a prezzi accessibili, negozi di alimentari e fabbriche. L’idea che il buon design non sia solo realizzare grandi opere ma anche migliorare l’ordinario è fondamentale in ciò che facciamo.
Il ciclo Brave New World indaga una nuova generazione di architetti e designer che si avventura oltre il suo tradizionale ruolo per rispondere alle sfide emergenti della nostra società. Credi che i public servant siano l’antidoto alle archistar?
Sempre più architetti di talento servono sempre meno persone: nel Regno Unito, ad esempio, solo il 6% delle nuove abitazioni è progettato da architetti, mentre le opere delle archistar che riempiono le pagine delle riviste e siti di architettura sono irrilevanti per la vita quotidiana della maggioranza delle persone. Corriamo il rischio che l’architettura divenga un lusso: Public Practice vuole invertire questa rotta. Nel 1890, Owen Fleming entrò a far parte del dipartimento di Housing of the Working Classes del London County Council sostenendo che “l’architettura non dovrebbe essere solo per i ricchi”. Penso che questo tipo di impegno sociale sia il ruolo originale dell’architetto. Troppi professionisti si sono lasciati alle spalle le ambizioni che li hanno motivati a diventare architetti: finalmente c’è un’intera generazione di giovani desiderosa di riscoprire proprio quel ruolo pubblico.
Fai parte dell’Institute for Innovation and Public Purpose della Bartlett. L’istituto, fondato e diretto dall’economista Mariana Mazzucato, promuove una nuova politica economica che ripensa e rivaluta l’interesse pubblico. Ci puoi spiegare il tuo ruolo all’interno dell’organizzazione e la rilevanza di questa ricerca per l’architettura?
Sono onorato di essere stato invitato da Mariana Mazzucato all’IIPP come visiting professor insieme ad alcuni dei miei eroi, come Carlota Perez, Dan Hill, Mike Bracken e Charles Leadbeater. Le idee di Mariana non solo sfidano le tradizionali economie di mercato, ma guidano un movimento globale che vuole ripensare il ruolo dello stato: Public Practice è davvero trascinata dallo slancio di questa onda. Ho contribuito al Mission Oriented Innovation Network di IIPP e alla serie di conferenze Rethinking Public Value. Ora sono entusiasta di essere advisor nei nuovi Masters of Public Administration, che svilupperanno idee e pratiche d’avanguardia nella pubblica amministrazione e nella governance, nella progettazione strategica e nella trasformazione digitale. Il fatto che questo sia il nuovo corso più popolare di UCL è un segno che la marea sta iniziando a girare. Che ci crediate o meno, la burocrazia sta diventando cool!
Oltre al tuo incarico a UCL, insegni al Royal College of Arts insieme a David Knight. Quale ruolo ha la scuola nella formazione di questa nuova generazione di architetti?
Nel Regno Unito c’è spesso un distacco totale tra le ambizioni del mondo accademico e i vincoli della professione. Credo che le scuole di architettura siano capaci di infondere negli studenti il desiderio di cambiare il mondo, ma altrettanto incapaci di aiutarli a capire come farlo una volta passati alla professione. Agli studenti di architettura viene insegnato a chiedere “perché”, senza mai sapere “come”, poi trascorrono il resto della loro carriera imparando “come”, senza mai chiedere “perché”. Nella mia attività di insegnamento incoraggio quindi gli studenti a guardare ai vincoli della pratica quotidiana – economia, politica, diritto – come campi in cui esercitare la creatività architettonica a pieno titolo: imparando le loro regole, possiamo iniziare a giocarci. E considerandole parte del nostro ambito di azione possiamo ampliare l’influenza della nostra disciplina: solo riscrivendo queste condizioni fondamentali saremo in grado di ridisegnare il nostro ambiente costruito.
‒ Marta Atzeni
www.publicpractice.org.uk
www.bsr.ac.uk
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