Architetti d’Italia. Ettore Sottsass, il mitologico
Ribelle fino in fondo o ideatore di nuovi cliché utili al mercato? Parte da questo interrogativo l’analisi del lavoro di Ettore Sottsass da parte di Luigi Prestinenza Puglisi.
Nel film Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar c’è una scena in cui la telecamera fissa per un attimo la libreria del protagonista, Salvator Mallo. Il dorso del libro maggiormente in evidenza è una monografia dedicata a Ettore Sottsass. Che non si tratti di un caso fortuito ce lo fa capire il film stesso, che ci racconta quanto l’arredamento e le opere d’arte custodite nella casa fossero importanti per lo stesso Mallo, un regista omosessuale in crisi esistenziale e creativa. E, infatti, la casa trabocca di oggetti di design pop e radical, con numerosi pezzi di Memphis, dello stesso Sottsass e qualcuno ‒ la lampada Pipistrello ‒ della postmodernista Gae Aulenti. Pezzi che contribuiscono a focalizzare le scelte ideologiche e stilistiche del personaggio, collocandolo in un empireo problematico, estetizzante, e sufficientemente snob, come conviene ai creatori di mode, sempre più interni che esterni al sistema.
Gli stessi mobili di Memphis sono quelli acquistati dai personaggi dei romanzi di Bret Easton Ellis e quelli che, al di fuori della finzione letteraria o cinematografica, vennero collezionati da David Bowie e da Karl Lagerfeld il quale, a Monaco, arredò un intero appartamento in questo stile.
Mi serviva questa premessa per farvi capire quanto per me sia difficile parlare di Ettore Sottsass, da molti considerato il prototipo del designer ribelle ma che, tuttavia, per quanto mi sforzi, non riesco a non vedere se non come quella famosa illusione ottica che si può interpretare o come una anatra o come una lepre a seconda del modo in cui la si guardi. Nel caso specifico, come un grande demolitore delle convenzioni del design funzionale e dall’altro come un ideatore di nuovi cliché utili alla valorizzazione mercantile del prodotto, subito captati e fatti propri dal mondo fatuo e decadente della moda.
Su Sottsass, d’altra parte, si possono scrivere numerose storie tra loro diverse. La prima è del progettista impegnato nella Olivetti, autore di alcuni pezzi indimenticabili di buon design, come la macchina da scrivere Valentine (1968), disegnata nella migliore tradizione di Ivrea. Sensibile ai tempi, moderna, spigliata, colorata e, nello stesso tempo, funzionalmente perfetta. Una Lettera 32 “travestita da sessantottina”, come ebbe a definirla il poeta Giovanni Giudici. Oppure come i primi calcolatori per i quali Sottsass si pose il problema di un disegno piacevole anche per far dimenticare i loro ingombri, trattandosi di macchine che ancora occupavano superfici consistenti dell’ufficio. Furono questi sforzi, tutti all’intero della migliore scuola del design italiano, che dobbiamo a personaggi quali Ettore Sottsass e, ricorderei tra gli altri, Marcello Nizzoli e Mario Bellini, che resero indimenticabili i prodotti Olivetti.
L’AMERICA E IL POSTMODERN
La seconda storia è del costruttore di relazioni con la migliore cultura americana di quegli anni. Grazie al matrimonio, secondo alcune testimonianze non particolarmente felice, avvenuto nel 1949 e scioltosi nella metà degli Anni Settanta, con Fernanda Pivano che lo portò a frequentare personaggi del calibro di Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso, Henry Miller, Charles Bukowski. Cioè quella cultura alternativa e anti-sistema che probabilmente influenzerà, insieme con i viaggi in oriente, la messa in crisi dell’idea funzionalista di design. “Ho sempre pensato” ‒ affermerà ‒ “che il design inizia dove i processi razionali finiscono e dove inizia la magia”.
La terza storia è del designer radicale e di avanguardia. Del costruttore di oggetti vivacemente, brillantemente e a volte pacchianamente colorati, anti-funzionali, dal forte impatto emotivo, un po’ pop e un po’ kitsch.
La quarta storia è del designer postmodern. Che negli Anni Ottanta si lascia prendere dai giocattoli, carichi di significati simbolici, che hanno valenze archetipiche. Un po’ come succede ad Aldo Rossi, ad Arata Isozaki, ad Alessandro Mendini e a Michael Graves. In fondo, a guardarli da una certa distanza temporale, le somiglianze tra i loro prodotti tendono a prevalere sulle differenze.
La quinta è del maestro di una tendenza, attraverso Memphis e lo studio Sottsass Associati. Da lui, soprattutto nel periodo tra il 1981, quando Memphis è fondato, e il 1987, quando è sciolto, passano alcuni dei più brillanti talenti del design italiano: Andrea Branzi, Aldo Cibic, Massimo Iosa Ghini, Michele De Lucchi, Matteo Thun. E poi gli stranieri Hans Hollein, Shirō Kuramata, Javier Mariscal, Michael Graves.
LA VERSIONE DI ZEVI
Sottovalutare il ruolo che ha avuto nella cultura del design italiano sarebbe un grave errore. Resta però il fatto che, per quanto cerchiamo, al di fuori dei prodotti realizzati per la Olivetti ‒la Valentine in primis ‒ degli indiscutibili capolavori nella produzione di una vita lunga e operosa, iniziata nel 1917 e conclusasi all’età di novanta anni nel 2007, ne troviamo ben pochi. Come ha notato Rowan Moore in un articolo apparso sul Guardian il 18 maggio 2014, dal titolo Ettore Sottsass: the godfather of Italian cool, la sua grandezza è consistita meno in creazioni individuali che nello spazio tra tutte le cose che ha fatto. “Alcuni designer, quali Arne Jacobsen o Charles e Ray Eames, sono strettamente identificati con sedie celebri o altri pezzi. Per Sottsass sono stati il lavoro, le idee e la vita ad aver significato”.
Adorato dai designer, Sottsass è stato considerato con più distacco dai critici di architettura, nonostante abbia realizzato diverse costruzioni. Manfredo Tafuri, nella sua storia dell’architettura italiana, gli dedica poche e distratte righe. E lo stesso Bruno Zevi, a giudicare dai suoi scritti principali, non lo aveva in grande considerazione. Almeno così pensavo sino a quando nella sua Universale di Architettura, nel 1997, gli fece dedicare una monografia nella serie degli Architetti. Strano, perché le costruzioni di Sottsass rassomigliano e non poco a quelle dei postmodernisti che lo stesso critico, in quegli anni, combatteva. Zevi aveva un occhio troppo acuto per sbagliarsi così clamorosamente. E allora mi sono chiesto il motivo dell’inclusione. La risposta che mi sono dato è che le forme di Sottsass, pur essendo le stesse utilizzate dai postmodernisti (tetti inclinati colorati di rosso vivo, colonnati sovrappeso, prismi elementari, bucature quadrate) soggiacciono a una logica della scomposizione che ne mette in crisi l’impianto. Un po’ come stava avvenendo con il decostruttivismo che, invece, Zevi vedeva con gran favore.
Videointervista prodotta dal Museo Alessi. Progetto di Francesca Appiani. Autore e regista Anna Pitscheider, fotografia: Andrea Turri, musica Marcello Del Monaco, distribuito da ARTFILMS
UNA OBIEZIONE
Resta però una obiezione, a mio avviso fondamentale: mentre i decostruttivisti sono riusciti a portare l’attenzione della ricerca architettonica dagli involucri allo spazio, preparando una nuova stagione formale fertile, spericolata e creativa, che è quella all’interno della quale noi viviamo, i progettisti come Ettore Sottsass non sono riusciti a uscire dalla composizione per accostamento o scontro di figure elementari. Come, per esempio, ha fatto Frank O. Gehry, che all’inizio si era mosso su una logica di volumi e di oggetti ripresi dalla tradizione pop, ma che poi ha cambiato registro muovendosi su un piano creativo più stimolante. Insomma: da Sottsass il fantasma della forma composta o scomposta non è stato rimosso, con il paradosso che alle esigenze avanzate negli scritti non è corrisposta una paragonabile libertà progettuale. Ed è forse questo il motivo per il quale, come dicevo prima, Sottsass a distanza di tempo può sembrare più un creatore di mitologie estetiche per registi alla Almodóvar o per stilisti alla Lagerfeld, che un reale innovatore di forme che avrebbero potuto cambiare il senso e il corso della progettazione in Italia.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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