Architetti frequent flyer ed ecologia. C’è un paradosso?
I frequenti viaggi aerei di alcuni dei progettisti più noti dei nostri anni possono essere considerati un’incongruenza rispetto all’“impronta ecologica” degli edifici sui quali hanno costruito le loro carriere? Oppure tali comportamenti rappresentano il “prezzo da pagare” per favorire una diffusione della loro visione del mondo? Una riflessione dell’architetto Guido Incerti.
Sono trascorsi pochi mesi dal primo Strike Climate Change, dove milioni di giovani e non di tutto il mondo hanno chiesto azioni contro i cambiamenti climatici, e circa un anno dal 23 agosto 2018, il primo venerdì in cui Greta Thunberg, con il suo cartello inneggiante Skolstrejk for klimatet, si sedette davanti al Parlamento svedese, invitando i politici a intraprendere decisioni radicali per salvare il futuro degli esseri umani sul pianeta. Greta e altri come lei hanno apparentemente le idee chiare su cosa fare per dare un futuro all’uomo. Una su tutte la rinuncia a molte delle possibilità che l’attuale periodo storico e tecnologico mettono a disposizione delle persone. Non sappiamo se sia la “decrescita felice” di Latouche; certo che l’idea è semplicemente rivoluzionaria, nell’attuale sistema economico mondiale: rinunciare coscientemente alle cose. Greta, come tutti i giovani, è radicale nelle sue scelte. Usa solo mezzi pubblici, è vegana/vegetariana, si limita ad acquistare il minimo necessario e se può riusa e ricicla attuando una lunga serie di micro-comportamenti quotidiani. Greta – e non solo lei ‒vuole essere pienamente coerente, nella vita, con il suo pensiero. Resoconti dei suoi lunghissimi viaggi in treno per rinunciare ai voli aerei (cui hanno aderito anche i familiari, con conseguenti modifiche delle loro carriere internazionali) sono stati fatti da chi l’ha seguita nel suo peregrinare attraverso l’Europa. Mostra così una consapevolezza di cui molti sono deficitari, cercando di rinunciare al Sistema, così come lo abbiamo a oggi costruito.
ARCHITETTI GLOBETROTTER E PENSIERO ECOLOGICO
Sono trascorsi 23 anni dalla pubblicazione di SMLXL, la monografia di OMA in cui Rem Koolhaas e Bruce Mau mostravano la crescita esponenziale dello studio, i progetti e la sua visione dell’architettura e, forse, del mondo. Un grafico, all’inizio del libro, analizzava l’impennata dei km percorsi annualmente dai collaboratori e le notti negli hotel. Il personale record di Koolhaas nel 1993 era: 305 notti in albergo su 365 e 360mila km percorsi. Nove volte il giro del pianeta. Aggiungiamo noi, con una produzione personale di 50,4 ton/CO2 a 140 gr/Km passeggero aereo (fonte Legambiente). Meno di due anni sono invece passati da un post su Facebook ‒ novembre 2017 ‒ in cui Cino Zucchi annotava: “Sul mio biglietto di aereo per San Pietroburgo si dice che il mio viaggio (individuale) immette circa 500 kg di CO2 nell’atmosfera, per cui andata e ritorno sono una tonnellata. Mi sembra di ricordare che il Bosco Verticale risparmi 25 ton/CO2 anno. Per cui se io, Stefano Boeri, Carlo Ratti e Mario Cucinella smettessimo di andare in giro per il mondo a fare convegni sulla sostenibilità e ci mettessimo a ristrutturare appartamenti per sposini nel circondario delle nostre città il nostro contributo alla sostenibilità sarebbe di gran lunga superiore a quello dei nostri edifici ‘sostenibili’!!!!!!”.
Zucchi ha centrato l’obiettivo: in un momento in cui il termine Antropocene ‒ l’era geologica dove l’homo sapiens è l’accertata causa delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche del pianeta ‒ è diventato di uso comune, quali sono, per quanto ci è possibile conoscere della vita pubblica, il pensiero ecologico e l’idea di sostenibilità dei protagonisti della nostra disciplina? È ciò che si narra nei render degli edifici e nelle ricerche su sistemi urbani sostenibili o è anche un sistema di comportamenti individuali e di gruppo?
LA PROFESSIONE AL TEMPO DI INSTAGRAM
Sfruttando i social media, Instagram su tutti, e seguendone molti, si può verificare come figure di spicco dell’architettura, che professano nuove vie alla sostenibilità, soluzioni per mitigare il riscaldamento globale e rispetto per il pianeta, continuano ad avere vite frenetiche e impronte ecologiche personali insostenibili. Un esempio? Seguite i post e unite i puntini della vita raminga dell’architetto di punta della digital economy e del new-tech: Bjarke Ingels. Si muove per New York City in bicicletta, salvo poi essere ovunque nel mondo, pena calo del fatturato, come segnalato dalla CEO dello studio nel documentario BIGTime. Sempre in rete si può inoltre verificare che i siti internet di molti studi di architettura (tra cui, a puro titolo informativo, Archea , Atelier Bow Wow, BIG, Stefano Boeri Studio, Mario Cucinella Architects, Cino Zucchi Associati, Carlo Ratti Associati, Diller Scofidio+Renfro, Elastico SPA, MVRDV, Foster and Partners, Nicholas Grimshaw, OMA/AMO, SANAA, SOM, Snøhetta, UN Studio, ZHA) che narrano di sostenibilità, ecologia e resilienza urbana, tra i loro “target” e/o “core business” non sono dotati di un bilancio ecologico. Non solo: nelle loro piattaforme non vi sono link alla promozione di comportamenti ecologici dei soci e/o del personale, sulla gestione ecologica di fornitori e forniture o, infine, sulle risorse energetiche che utilizzano per il funzionamento delle loro “macchine”.
MODELLI DA RIPENSARE?
Tornando al grafico di SMLXL – uno style life o, meglio, status symbol per world wide architects – è facile comprendere che quel modello di gestione non è più sostenibile. Il successo ‒ anche in immagine ‒ di essere frequent flyer non funziona in un mondo dove, per contrastare i cambiamenti climatici, la popolazione complessivamente dovrebbe produrre una impronta ecologica di circa 0,6 ton/CO2 contro l’attuale media nella UE di 8,4 ton/CO2. O semplicemente c’è il rischio di rendere visibile l’incoerenza che si cela dietro al lavoro che si narra e la vita che si conduce perdendo, forse, credibilità. Si può obbiettare che, in una media mondiale, Bjarke Ingels, Carlo Ratti e tutti gli altri potrebbero continuare a sorvolare il mondo per raggiungere clienti, visitare cantieri e fare conferenze, senza arrecare troppo danno. C’è questa possibilità, se non fosse che quel modello insostenibile è messo in atto dalla stessa élite culturale che professa di voler aiutare – con la propria opera – il pianeta, scaricando, di fatto, il proprio impatto socio economico e ambientale sulle spalle di chi quell’impatto non lo può avere o non lo vuole scientemente avere. Dando così prova dell’incapacità o non volontà, di fondo, a voler rinunciare, rivoluzionare o far evolvere un modello di business e autopromozione, nel quale un po’ ci si crogiola, sulla falsariga del turbocapitalismo che ha originato ‒ vedi alla voce Archistar ‒ un sistema dannoso e protagonista nel muovere “la sega che ci sta tagliando il ramo”.
OCCHI CHE NON VEDONO
Ampliando questo ragionamento, non sarebbero più vendibili ‒ o meglio sostenibili ‒ i grandi eventi della cultura che indagano il presente e il futuro. Facciamo un esempio: quanto sono sostenibili La Biennale di Architettura o La Biennale d’ Arte a Venezia, un ecosistema urbano fragile e passibile di scomparire per gli squilibri ambientali dei prossimi decenni? Sono, le Biennali, eventi dove si prevede che il pubblico – visitatori, artisti, architetti, ecc. ‒ arrivi da tutto il mondo, con i relativi costi ambientali. Manifestazioni che, dopo poco, cedono il passo ad altri appuntamenti, portando materiale allestitivo nella discarica dei rifiuti speciali e altro verso aerei cargo. Non è un problema in quest’ultimo caso di quantità, sia chiaro, ma di opportunità, della necessità di un ripensamento e di qualche rinuncia. Oggi nessuna grande kermesse internazionale dà prova ufficiale della propria sostenibilità. Consideriamo, ad esempio, solo gli spostamenti internazionali aerei per persone e/o opere. Attualmente nessuna compagnia aerea – pur segnalando a ogni passeggero la proprio impronta ecologica ‒attua strategie di mitigazione del proprio impatto ambientale. Impatto che l’Istituto Europeo per l’Economia e l’Ambiente quantifica in circa 417 $/ton per il CO2 prodotto (comprese di tutte le esternalità), mentre per prevenirlo basta una spesa di 30 $/ton, ad esempio piantumando nuovi alberi. Anche se, va riconosciuto, in ambito politico qualche bozza di proposta al momento sta circolando – obbligatoriamente, è il caso di dirlo ‒, vista la stima di crescita al 2050 di 16 miliardi di passeggeri volanti. Che sia arrivato il momento di una Biennale con bilancio CO2 a zero? Magari piantando ogni qual volta un nuovo bosco, rigenerando la materia, diventando a Km0 o facendosi virtuale?
COME CAMBIERÀ IL LAVORO DELL’ARCHITETTO?
Tornando a noi. Qual è la vera coscienza ecologica che si cela dietro parte dell’architettura? Quella naif che fa dell’ambiente e del rispetto per esso, spesso prendendone a prestito i termini, poco più di una crocetta su un pezzo di carta che certifica il “prodotto” ai clienti/visitatori? O, piuttosto, quella che dovrebbe farsi comportamento personale oltre che lavorativo ‒ specie delle élite culturali ‒ alla Greta Thunberg? Riuscirebbero Bjarke Ingels – con il suo edonismo sostenibile – o il Carlo Ratti di turno a essere ugualmente carismatici se indisponibili a farsi il selfie di rappresentanza o spiegare i loro progetti e convincere – magari a voce ‒ un committente senza essere fisicamente davanti a lui, una volta che venisse attuata una obbligatoria diminuzione dei voli? E il pubblico come risponderebbe se gli ospiti internazionali fossero presenti solo via video, dirette Facebook o chissà ologrammi, senza mai avere fisicamente presenti i propri eroi? E riuscirebbero gli studi internazionali a limitare gli spostamenti dei partner quanto dei collaboratori? Usando, magari, solo treni e mezzi pubblici, sapendo che questo dis-comfort è un valore aggiunto se narri la tua architettura come sostenibile? Come seguire un cantiere a migliaia di km dalla sede dello studio senza prendere 15 aerei al mese, ma affidandosi solo ad architetti locali e alle connessioni ultraveloci, BIM, Big Data e controlli in remoto, con relativi problemi di privacy? Come cambieranno il lavoro dell’architetto e l’architettura del prossimo futuro sostenibile e resiliente? E come saranno le grandi manifestazioni a zero CO2? Queste sono le sfide culturali etiche e sociali cui si deve obbligatoriamente tendere, se si crede di essere élite culturale, prima ancora che sociale ed economica.
‒ Guido Incerti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati