Architetti d’Italia. Giovanni Michelucci, il solitario
Piuttosto irascibile ma dotato di un talento capace di non adeguarsi alle tendenze della sua epoca, Giovanni Michelucci è il nuovo protagonista della rubrica di architettura firmata da Luigi Prestinenza Puglisi.
Parlando di Giovanni Michelucci, occorre prestare attenzione alle date. Nasce nel 1891. È solo quattro anni più giovane di Le Corbusier, cinque di Mies van der Rohe e tredici anni più anziano di Giuseppe Terragni.
Muore il 31 dicembre 1990 a quasi cento anni: li avrebbe compiuti il 2 gennaio 1991, beffando, si dice, da vecchio terribile, coloro che avevano pagato una inserzione a tutta pagine sul quotidiano fiorentino La Nazione per augurargli buon compleanno. Fa quindi in tempo a vivere la stagione delle avanguardie degli Anni Sessanta e Settanta, il postmoderno e la sua crisi. Insomma vede anche Aldo Rossi e Frank O. Gehry. Pochi architetti hanno quindi incontrato tante accelerazioni e tante frenate dell’architettura. Vissuto tanti momenti rispetto ai quali è difficile orientarsi. Tra i suoi due capolavori ‒ la stazione di Santa Maria Novella a Firenze e la Chiesa dell’Autostrada a Campi Bisenzio ‒ trascorrono quasi trenta anni, essendo la prima completata nel 1935 e la seconda nel 1964.
Della sua produzione sono possibili diversificate letture e, tra queste, due in particolare. La prima mette in evidenza le analogie tra le sue opere e le coeve. Così la stazione di Firenze passerebbe per un’opera del razionalismo italiano e la Chiesa sull’Autostrada per una scultura in bilico tra tendenze organiche e il brutalismo, come in quegli anni andavano: da Ronchamp di Le Corbusier al Terminal TWA di Eero Saarinen.
L’altra, invece, sottolinea la sperimentazione in solitario di un protagonista non assimilabile ad alcuna corrente. Un protagonista che può ricordare altri grandi solitari, come per esempio Erich Mendelsohn, rispetto ai quali qualunque accostamento con stili e mode coeve appare forzato.
LA STAZIONE DI FIRENZE
Sono più incline a questa seconda ipotesi interpretativa. Prendete la stazione di Firenze. Si fa fatica a definirla razionalista. Evita i riferimenti al mondo classico, non utilizza il marmo bianco che è una specie di trade mark delle opere monumentali del regime e degli esperimenti dei giovani razionalisti del Gruppo 7. Ricorda il Futurismo, ma manca quel culto della velocità che ne caratterizza le forme. Forse ricorda anche l’architettura olandese. Ha qualche cosa ‒ ho sempre pensato ‒ che sarebbe piaciuta a Petrus Berlage o a Willem Dudok.
I suoi detrattori, ed erano numerosi, la accusavano di essere un insulto alla vicina chiesa di Santa Maria Novella. E, da un certo punto di vista, avevano ragione. È difficile pensare a un edificio meno influenzato dal luogo, se con questo termine intendiamo la costruzione di loquaci rimandi. Se la stazione dialoga con la preesistenza, è proprio perché segue un suo ragionamento interno e la chiesa non la vuole scimmiottare in alcun modo. Se un nesso c’è, è che la prima onestamente racconta la civiltà del Medioevo e la seconda del Novecento.
Se prendiamo la Chiesa dell’Autostrada, anche in questo caso si fa fatica a stabilire un nesso con le architetture coeve. Non ci sono ammiccamenti formali con quanto si realizzava nel periodo, ma un linguaggio personale che non teme di fare i conti con l’anti-grazioso. Come con la stampella che sorregge la copertura e, così facendo, trasforma un monumento sacro in una struttura che sembra stare in piedi per miracolo, in uno stato precario che potrebbe da un momento all’altro essere compromesso. Un rimando sicuramente retorico alle vite dei lavoratori che morirono nella costruzione dell’autostrada, ai quali la chiesa è dedicata. Ma, soprattutto, un modo originale di intendere l’architettura, come costruzione dell’uomo e quindi transeunte, organica, soggetta a una storia che negli edifici non può che essere cristallizzata con una immagine inquietante. Da questo punto di vista, è un edificio lontano da molti coevi. Ricorda, più che la Ronchamp di Le Corbusier, le prefigurazioni di John Johansen. E, se vogliamo fare un salto in avanti nel tempo, l’universo caotico e terremotato di Frank O. Gehry. Poeta con il quale condivide il culto dello spazio e una costruita incompletezza della forma.
FUORI DAL CORO
Michelucci, come tutti i toscani, aveva un carattere impossibile. Litigherà presto con il gruppo degli architetti con i quali aveva progettato e realizzato la stazione di Firenze. Lascerà la facoltà di architettura e andrà polemicamente a insegnare a ingegneria a Bologna. Avrà un rapporto difficile con i suoi due più dotati allievi: Leonardo Ricci e Leonardo Savioli. Passerà accanto agli anni magici delle avanguardie fiorentine senza diventarne, come sarebbe stato opportuno, il punto di riferimento. Non svolgerà mai, insomma, quel ruolo che personaggi, penso per esempio a Berlage, svolsero in altri contesti culturali. Un peccato perché negli Anni Sessanta e Settanta proprio nella sua Firenze si concentrarono tante energie creative e talenti che avrebbero potuto incidere profondamente, cambiando il corso dell’architettura italiana. In fondo, se oggi si stanno riscoprendo quel periodo e quel clima culturale, è per merito di un mattatore universalmente conosciuto quale Rem Koolhaas, che ha ricordato la sua formazione presso Superstudio. Generando una lettura di quegli anni sicuramente interessante ma a tratti modaiola e superficiale e che, difatti, trascura i contributi più importanti, perché predilige le immagini di Monumenti Continui alle realizzazioni edilizie che i migliori architetti di quel periodo ‒ Ricci, Savioli, Giorgini e in primis Michelucci ‒progettarono.
CHIESE E BANCHE
Michelucci, lungo il corso della sua vita, realizzò molti edifici, non è stato quindi certamente un poeta incompreso. Come ha ricordato in una recente conferenza Claudia Conforti, ha costruito chiese e banche. Le prime le disegnava, seguendo una vecchia tradizione, senza parcella perché a onore e gloria di Dio; le seconde perché i clienti erano facoltosi e potevano permettere lauti onorari. Credo che sia proprio nelle chiese che emerga il miglior Michelucci. Il senso del suo lavoro. Quasi tutte sono stridenti, se non disturbanti. Non rispondono ai canoni codificati della bellezza. Hanno una forte componente gestuale e una ancora più decisa strutturazione spaziale in cui la forma si genera a partire dalle percorrenze. Ricordano, a volte, la natura con strutture dendriformi. Ma la natura inquieta, non certo quella classica e pacificata. Forse solo un committente come la Chiesa Cattolica, da sempre aperto a tutti i registri della progettazione, poteva accettare opere simili, apprezzandone l’apertura simbolica e concettuale.
Vi è, infine, un edificio che amo particolarmente. La direzione provinciale delle Poste e Telegrafi nel quartiere Santa Croce di Firenze. In una città fatta da palazzi solidi e dal forte carattere stereometrico, Michelucci inserisce un oggetto non meno forte, articolato secondo direttrici plastiche. Un’opera che ricorda il miglior Mendelsohn, e cioè una linea fluida ed espressiva, se non espressionista, che avrebbe meritato maggiore fortuna. È un peccato che nella ricostruzione, seguita ai disastri della Seconda Guerra Mondiale, furono realizzate solo poche delle opere da lui ipotizzate per rendere la città migliore, senza farle, allo stesso tempo, perdere il suo carattere. Michelucci, quando ci saremmo tolti i paraocchi dell’ideologia classicista che in fondo in fondo ci direziona e perseguita, ci riserverà ancora molte sorprese e un intenso piacere, quello che sa dare la buona architettura.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
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Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
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Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
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