Cento giorni di solitudine. Reportage dalla Biennale di Architettura di Orléans
Diretta da Abdelkader Damani e Luca Galofaro, la seconda edizione della Biennale d’Architecture d’Orléans omaggia il capolavoro letterario di Gabriel García Márquez. Analizzando, dal punto di vista dell’architettura, una condizione peculiare del nostro tempo: la solitudine.
Per un fine settimana post apertura la situazione è inaspettatamente tranquilla. Saranno forse i violenti scrosci autunnali ma, malgrado gli eventi in programma, in città i forestieri della cultura si contano sulle dita. A Orléans la Biennale di Architettura, giunta alla sua seconda edizione, è innanzitutto discreta. Fa un’intrusione puntuale nei giardini, nelle chiese e nei teatri del centro storico, dissemina qualche (poca) installazione nello spazio pubblico ma non perturba una certa, decorosa routine di provincia, che qui si articola tra i neoclassici portici del corso centrale e le villette a schiera, oltre i boulevard di circonvallazione. Eppure, in questa roccaforte del conservatorismo cattolico francese, emblema di quella provincia agricola e piccolo-borghese disprezzata (e quindi celebrata) dai vari Ernaux, Eribon e Louis, un evento del genere ha una portata ben maggiore di quella che una prima impressione potrebbe lasciar intuire. Perché convita per una volta i grandi nomi della cultura e dell’arte fuori dai soliti circoli parigini e perché riesce a trattare un tema, quello della solitudine, che oltre a essere di grande attualità rimane intimamente legato a queste lande afflitte da eterno bovarismo.
ALL’ORIGINE ERA IL FRAC CENTRE-VAL DE LOIRE
Da queste parti, si sa, tutte le strade portano a Parigi. E non solo in senso figurato. Basta consultare il tabellone delle partenze della stazione per farsene un’idea. Negli Anni Ottanta però qualcosa cambia. Sotto la guida del ministro Lang, il governo Mitterand intraprende una politica di decentralizzazione culturale promuovendo i FRAC ‒ fondi regionali d’arte contemporanea ‒ che mirano alla diffusione della cultura artistica su tutto il territorio nazionale. Il FRAC Centre-Val de Loire, regione di cui Orléans è capoluogo, fa una scelta non scontata: focalizzare la propria collezione sull’architettura e sul suo rapporto con le altre discipline. In meno di quarant’anni il Centro mette insieme più di 13mila opere e nel 2013 si dota di una nuova spettacolare sede firmata dal duo franco-neozelandese Jakob + McFarlane. L’estetica volutamente blob del contenitore, che ricerca senza vergogna l’effetto Bilbao, fa prova nonostante tutto di una certa coerenza con il suo contenuto: il FRAC di Orléans ha raccolto gli archivi e i fondi di architetti sperimentali e spesso utopisti e quella un po’ goffa nuvola di punti parametrici ne richiama per certi versi lo spirito.
Sulla scia di una serie di gloriosi incontri di architettura, che sotto il nome di ArchiLab hanno per anni animato il dibattito nazionale intorno ai temi della città e del costruito, nel 2017 nasce, con la direzione di Abdelkader Damani e Luca Galofaro, la Biennale di Orléans. Riconfermati alla guida della manifestazione, il direttore del FRAC e l’architetto romano invitano quest’anno a riflettere sulla nozione di isolamento (volontario o meno) dell’artista e dell’architetto nel segno de I nostri anni di solitudine. Articolata in sei mostre tematiche, a cui si sommano una collezione invitata e una serie di piccole installazioni collaterali, la Biennale propone letture del tema diverse.
TANTE SOLITUDINI: LE SEZIONI DELLA MOSTRA
Se nelle retrospettive sugli architetti Fernand Pouillon e Günter Günschel la solitudine prende gli accenti di un necessario distaccamento dell’intellettuale dalle pratiche convenzionali, in altre sezioni il tema si tinge di malinconica rassegnazione. È il caso di Dalla solitudine alla desolazione, curata da Frida Escobedo e dallo studio iii negli spazi del Théâtre d’Orléans: sulla falsariga del più celebre saggio di Octavio Paz, la mostra descrive un Messico abbandonato da un governo corrotto e arrogante all’ingiustizia sociale, alla spoliazione delle sue risorse naturali e a una costruzione della città portata avanti dai singoli cittadini. È, ancora, il caso delle bandiere allestite dalla palestinese Nora Akawi sulle facciate dell’haussmaniana rue Jeanne d’Arc, che, al pari di quelle del camerunese Pascale Marthine Tayou nel Campo Santo, rimandano alla solitudine post-coloniale dei paesi arabi e africani.
DA CAGE A SACRIPANTI, FINO AD ARQUITETURA NOVA
Più eterogeneo (e incoerente) è invece l’approccio delle sezioni ospitate all’interno del FRAC. Si inizia con un coro di opere di artisti diversi come André Bloc, John Hejduk, John Cage, Chris Marker e Driss Ouadahi. Si continua con un dialogo tra i progetti più o meno utopici di Sacripanti, Musmeci, Pellegrin e Perugini, prestati dagli archivi del MAXXI di Roma, e le ricerche sui ben meno utopici incompiuti del Sud Italia, documentati dal duo Lohrmann de Martino. La sezione più affascinante rimane però senza dubbio Sogni visti da vicino, ospitata sotto le volte di una chiesa del XII secolo convertita in spazio espositivo. Partendo dal fallimento della promessa modernista di riscattare la società attraverso l’architettura, il curatore Davide Sacconi invita a un percorso attraverso l’opera costruita, dipinta e pensata del poco noto gruppo brasiliano Arquitetura Nova, attivo negli anni della dittatura militare. Su questa solitudine di resistenza artistica e civile si innestano, lungo le navate laterali, esperienze parallele. Tutte condividono un rifiuto delle soluzioni moderniste e del loro autoritarismo, a cui contrappongono partecipazione, autocostruzione e realismo. Da una casa danzante a Tokyo, filmata dal duo Beka Lemoine, a uno spazio ibrido e leggero a Bordeaux dello studio Lacaton & Vassal, passando per San Paolo e La Havana, l’intrusione puntuale di nuovi capitoli chiarifica e dà ritmo al racconto centrale. Il risultato è un’intelligente ibridazione tra materiali diversi per periodo e provenienza, che solo insieme attivano rimandi imprevedibili e azzardano una risposta ai troppi interrogativi lasciati aperti dal crollo del moderno.
UNA BIENNALE DELLE COLLEZIONI
Un inno insomma alla solitudine creativa dell’artista? È difficile dare una risposta univoca a una Biennale che, come ricordano giustamente i curatori, non fornisce risposte ma pone le condizioni necessarie alla loro costruzione. E se la decantata solitudine dell’evento non può che richiamare alla mente quella di un’istituzione dedicata all’architettura sperimentale in una città che di sperimentale ha ben poco, gli spunti di riflessione offerti dal dialogo tra materiali di archivio e progetti contemporanei sono il segno forte di questa “biennale delle collezioni”. Cento giorni, fino al 19 gennaio, per visitarla.
‒ Leonardo Lella
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