Architetti d’Italia. Venturino Ventura, il dimenticato
Con questo profilo, Luigi Prestinenza Puglisi invita a salvare dall’oblio i “vinti”, tutti quei professionisti che, per i casi della storia e non solo, sono stati dimenticati.
Nella storia dell’architettura italiana si incontrano personaggi con esistenze e destini tragici e misteriosi. Basti ricordare Edoardo Persico, la cui vita e la cui drammatica e controversa morte (malore? Assassinio a opera della polizia fascista?) hanno stimolato le fantasie di tanti e dello scrittore Andrea Camilleri. La vicenda, tra le molte, che più di tutti mi affascina è quella di Venturino Ventura. Di lui, nonostante le decine di palazzine ed edifici per uffici, tutti di grande valore, che ha realizzato, si sa poco e nulla. Credo che in giro ci siano solamente una non troppo recente tesi di dottorato, scritta da Elena Mattia, e un articolo sulla Torre alla Mostra d’Oltremare a Napoli, redatto dallo storico Fabio Mangone, risalente a diversi anni addietro, credo al 1993. Entrambi i testi sono scarni per quanto riguarda le informazioni biografiche. Sappiamo che era nato a Firenze nel 1910, si era laureato a Roma nel 1936 alla Regia scuola di Architettura, era stato allievo di Enrico Del Debbio, aveva lavorato con importanti architetti del regime, quali Ballio Morpurgo, e stava per ottenere fama e successo: aveva infatti vinto, nel 1938, a soli due anni dalla laurea, l’importante incarico per la Torre alla Mostra d’Oltremare a Napoli. Stava iniziando la carriera universitaria e collaborando con architetti del calibro di Adalberto Libera.
A un certo punto, il silenzio. Sappiamo che è ebreo e che, per sfuggire alle leggi sulla razza, si trasferisce a Chieti dove vive una esistenza defilata. Dopo la Liberazione, ritorna a Roma e mette in piedi uno studio professionale, dedicandosi quasi esclusivamente alla clientela privata e stando al di fuori dal dibattito architettonico. Nessuna rivista si accorgerà di lui se non episodicamente, nessun critico lo citerà. Eppure Ventura, oltre a essere un abile professionista, è un sognatore: scrive un testo di cinquecento pagine, dall’inquietante titolo La città condannata, dove racconta la sua utopia per le metropoli del futuro. Il saggio non viene stampato e del manoscritto ‒ l’ultima testimonianza che abbiamo è di Mangone, che lo ha visto rimanendo colpito dalla bellezza dei disegni ‒ non ne sappiamo più nulla: forse è andato perso o è riposto in qualche cassetto. Mentre il resto del materiale progettuale pare sia in gran parte andato distrutto a causa di un incendio.
LA STORIA
Sarebbe interessante, a questo punto, incrociare le poche notizie che abbiamo con la storia del Regime. Ventura vince il concorso per la Torre della Mostra d’Oltremare il 15 settembre 1938, proprio nel momento in cui il fascismo sta varando le leggi sulla razza. Il 18 settembre, tre giorni dopo, il Corriere della Sera a tutta pagina le annuncia. Ventura, nonostante sia ebreo, non viene licenziato. Forse perché gode di protezioni importanti. Giovanni Sepe, che doveva essere una malalingua, insinua nella Storia e Cronache della Facoltà di Architettura di Napoli che “fra i concorrenti ammessi (alla seconda fase del concorso della Torre) c’era l’architetto Ventura che – dicevano ‒ era romano ed era legato a quell’ancora di salvezza che era il segretario del Partito”. E difatti la Torre è realizzata nel periodo successivo, e secondo il progetto. La costruzione di un edifico così importante da parte di un progettista, non ariano e non napoletano, scatena sicuramente vivaci reazioni. I tempi peggiorano e l’Italia entra in guerra. Tra il 1941 e il 1942 Ventura si trasferisce a Chieti. Un esilio probabilmente autoimposto che gli garantisce una sorte migliore di quella di altri ebrei. Ventura deve essere un uomo che sa tenere le relazioni con un Regime che non era affatto così monolitico nell’ideologia. E che fosse un personaggio accorto e affascinante, e quindi in grado di salvarsi la pelle, lo capiamo anche dalla sua successiva fortuna professionale. È impossibile pensare nel dopoguerra a uno studio di progettazione con tanta clientela privata senza considerare una naturale propensione ai contatti umani. Questa abilità probabilmente lo aiuta a sopravvivere alle gelosie e, soprattutto, alla persecuzione razziale. Ma da quel momento l’architetto capisce quanto il mondo della politica e della stretta cerchia dei potenti dell’architettura siano malsani e infidi. O, comunque, senza arrivare a queste estreme conclusioni, che è bene cambiare registro e dedicarsi ad attività con minore visibilità. Un vero peccato perché la Torre di Napoli ci racconta di un architetto estremamente dotato che non ha niente da invidiare ai maggiori. Con una capacità di trattamento dei volumi che ricorda il miglior Libera.
Nel dopoguerra inizia il ciclo delle palazzine. Due ‒ e forse sono le uniche a godere del favore della stampa specializzata ‒ sono segnalate dall’occhio infallibile di Bruno Zevi che le pubblica nel numero 10 del 1956 de L’architettura. Cronache e storia.
Le sue palazzine, se le osserviamo a distanza di decenni, sono tra le più belle romane. Hanno un solo difetto, almeno, per noi abituati a giudicare le opere in termini esclusivamente di linguaggio: non seguono codici precisi o predeterminati. Alcune ricordano un certo modo di intendere il Movimento Moderno, altre l’architettura organica e in particolare quella di Wright, altre ancora i tentativi del Team 10 di superare il rigorismo purista, altre una decisa apertura all’espressionismo con segni forti e arbitrari.
UN ECLETTICO
Insomma, un eclettico più che un manierista. Come testimoniano anche le immagini del suo libro, che a giudicare da quanto mi ha raccontato il professor Mangone, mostravano aperture alle esperienze metaboliste. Un eclettismo, però, avverso ai pasticci del postmodernismo, ai giocattoloni inutili e disimpegnati tanto in voga negli Anni Settanta.
Ventura si fa poco prendere dal linguaggio fine a sé stesso. Le sue costruzioni risolvono, infatti, problemi economici o funzionali. Sarebbe, per esempio, errato vedere negli innumerevoli tetti a padiglione semplici accorgimenti figurativi. Sono invece la soluzione architettonica per realizzare ai piani superiori cubatura eccedente quella strettamente concessa dai regolamenti e quindi venire incontro alle esigenze speculative dei costruttori. Così anche i tagli, che segnano efficacemente le volumetrie, servono a trovare luce per gli ambienti interni a beneficio della buona distribuzione in pianta. Interessanti sono anche gli edifici per uffici, dove a volte la struttura è lasciata in vista, in facciata.
Guardando a tutte queste opere che così bene reggono il tempo, viene da pensare a quanto il livello dell’edilizia, soprattutto a Roma, si sia oggi abbassato. Accanto a Ventura architetti non meno dotati, anch’essi dimenticati, negli stessi anni realizzavano opere notevoli senza essere avversati da norme, diktat delle soprintendenze e costrizioni di ogni sorta. In questi profili abbiamo ricordato Oreste Martelli Castaldi. Vi sono poi Alvaro Ciaramaglia, che poteva permettersi virtuosismi perché, oltre a essere bravo, faceva lui stesso il costruttore, Francesco Palpacelli e, solo per citarne altri tre, Alfredo Lambertucci, Francesco Berarducci e Luigi Pellegrin. Anche di loro il ricordo con il passare degli anni si affievolisce. Segno che la storia dimentica e proprio per questo ha bisogno di essere continuamente riscritta e rinfrescata. Sarei felice se qualche dottorando, invece di perdere tempo con illeggibili e mal digeriti saggi sulla teoria dell’architettura che sul mio tavolo arrivano a pacchi per prendere rapida la via del cassonetto, si dedicasse a una importante opera di riscoperta e di risarcimento di questi vinti. A partire da Venturino Ventura che, di tutti quanti, per tragica sorte o forse per autoimposizione, appare essere stato il più dimenticato, il più trasparente.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
LE PUNTATE PRECEDENTI
Architetti d’Italia #1 – Renzo Piano
Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
Architetti d’Italia#9 – Michele De Lucchi
Architetti d’Italia#10 – Vittorio Gregotti
Architetti d’Italia#11 – Paolo Portoghesi
Architetti d’Italia#12 – Mario Cucinella
Architetti d’Italia #13 ‒ Mario Bellini
Architetti d’Italia #14 ‒ Franco Purini
Architetti d’Italia #15 ‒ Italo Rota
Architetti d’Italia #16 ‒ Franco Zagari
Architetti d’Italia #17 ‒ Guendalina Salimei
Architetti d’Italia #18 ‒ Guido Canali
Architetti d’Italia #19 ‒ Teresa Sapey
Architetti d’Italia #20 ‒ Gianluca Peluffo
Architetti d’Italia #21 ‒ Alessandro Mendini
Architetti d’Italia #22 ‒ Carlo Ratti
Architetti d’Italia #23 ‒ Umberto Riva
Architetti d’Italia #24 ‒ Massimo Pica Ciamarra
Architetti d’Italia #25 ‒ Francesco Venezia
Architetti d’Italia #26 ‒ Dante Benini
Architetti d’Italia #27 ‒ Sergio Bianchi
Architetti d’Italia #28 ‒ Bruno Zevi
Architetti d’Italia #29 ‒ Stefano Pujatti
Architetti d’Italia #30 ‒ Aldo Rossi
Architetti d’Italia #31 ‒ Renato Nicolini
Architetti d’Italia #32 ‒ Luigi Pellegrin
Architetti d’Italia #33 ‒ Studio Nemesi
Architetti d’Italia #34 ‒ Francesco Dal Co
Architetti d’Italia #35 ‒ Marcello Guido
Architetti d’Italia #36 ‒ Manfredo Tafuri
Architetti d’Italia #37 ‒ Aldo Loris Rossi
Architetti d’Italia #38 ‒ Giacomo Leone
Architetti d’Italia #39 ‒ Gae Aulenti
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Architetti d’Italia#41 ‒ Giancarlo De Carlo
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