Biennale d’Architecture d’Orléans. La mostra sul gruppo Arquitetura Nova
La storia e le sperimentazioni del gruppo Arquitetura Nova animano la mostra “Dreams seen up close”, nell’ambito della seconda edizione della Biennale d’Architecture d’Orléans.
Si avvia alla chiusura la seconda edizione della Biennale d’Architecture d’Orléans, la manifestazione dedicata all’architettura promossa dal Frac Centre Orléans e curata da Abdelkader Damani e Luca Galofaro. Un “atlante della solitudine”, che con la monografica Dreams seen up close riscopre le sperimentazioni del gruppo Arquitetura Nova nel Brasile in costruzione degli Anni Sessanta. Sotto le volte della Collégiale Saint-Pierre-le-Puellier dipinti, fotografie e grandi modelli raccontano dieci eccezionali anni di attività, fra architettura, pittura, teatro e cantieri. Ripercorriamo questa straordinaria esperienza nelle parole del curatore Davide Sacconi.
L’INTERVISTA A DAVIDE SACCONI
Arquitetura Nova è l’ospite d’onore della seconda Biennale d’Architecture d’Orléans. Come è nata l’idea di Dreams seen up close?
Da diversi anni mi occupo di architettura brasiliana, e l’opera di Arquitetura Nova è parte della ricerca di dottorato che sto conducendo all’AA di Londra. Ma è parlando con il direttore del Frac Abdelkader Damani che la mostra è nata. Siamo entrati in contatto in occasione di Misunderstandings, una collaborazione tra Frac e CAMPO. Qualche tempo dopo, Abdelkader ha conosciuto Sérgio Ferro, unico dei tre fondatori di Arquitetura Nova ancora in vita, e mi ha proposto di lavorare con lui per presentare il lavoro del gruppo a Orléans. Il risultato è Dreams seen up close.
La mostra si apre con una selezione di materiali eterogenei come libri, dipinti, scatti di scene teatrali, attrezzi da lavoro: che tipo di studio era Arquitetura Nova?
Come dimostra la varietà di questi oggetti, alla radice delle sperimentazioni del gruppo c’era una multidisciplinarietà molto forte. I tre fondatori – Sérgio Ferro, Flávio Imperio e Rodrigo Lefèvre – studiano architettura all’Università di San Paolo. Ma non sono solo architetti: Ferro è un intellettuale, interessato alla politica e alla teoria; Imperio è un grande scenografo; Lefèvre è il “progettista puro” del trio, un amante della tecnica. E tutti dipingono. Più che uno studio, dobbiamo immaginare Arquitetura Nova come un’officina in cui si praticavano architettura, teatro, scrittura e pittura, aperto a tutti i creativi di passaggio a San Paolo, compreso l’Action Theatre dagli States!
Ferro, Imperio e Lefèvre iniziano la loro attività di progettisti negli anni dell’epica costruzione di Brasilia, documentata in mostra dai celebri scatti di Marcel Gautherot. Che valore ha per loro questa esperienza?
È un episodio fondamentale: ancora studenti, i tre progettisti hanno l’opportunità di osservare come le bianche superfici curve delle architetture di Niemeyer richiedano non solo tonnellate di ferro, ma anche uno sfruttamento intensivo della manodopera: parliamo di migliaia di lavoratori che, nel totale isolamento del planalto central, in soli quattro anni costruiscono manualmente una città per 500mila abitanti. Di fronte a questa condizione, il trio di architetti elabora un manifesto sociale, fondato su un totale ripensamento del ruolo dell’architetto.
In che modo?
Per Arquitetura Nova è l’architetto che, attraverso il disegno, controlla e aliena l’operaio, riducendolo a mero esecutore. Il collettivo propone perciò di sovvertire le gerarchie convenzionali del cantiere. Usando le parole di Ferro, il processo di costruzione diventa un’orchestra jazz: il progettista compone lo spartito, su cui ogni équipe di operai ha poi la libertà di improvvisare e lasciare il proprio segno. Così nelle architetture di Ferro, Imperio e Lefèvre gli impianti sono esposti, i servizi diventano volumi totemici e il cemento è lasciato a faccia vista. I dettagli costruttivi diventano uno strumento didattico per celebrare il lavoro libero.
A proposito delle loro opere, nella Collegiale sono esposte quasi esclusivamente case: perché ti sei concentrato proprio su questa tipologia?
La produzione domestica meglio racconta le riflessioni teoriche, sociali e politiche di Arquitetura Nova: traduce infatti il sogno di una nuova società in un’architettura che abbraccia le condizioni economiche, tecniche e materiali dei migranti che dalle poverissime regioni del nord si erano spostati nelle grandi città di San Paolo e Rio.
Come si traduce concretamente?
Le case di Ferro, Imperio e Lefèvre sono grandi volte. Essendo la forma geometrica che richiede la minor quantità di ferro e cemento per costruire una copertura, la volta è l’espediente formale e tecnico per rielaborare materiali e mezzi di produzione dell’architettura popolare che costituisce la città brasiliana. Inoltre, creando una spazialità priva di riferimenti cartesiani, la volta scardina le convenzioni abitative. In questo modo l’architettura diventa “poetica dell’economia”, un tipo di produzione che accetta la scarsità di mezzi non come condanna, ma come terreno fertile per costruire una nuova società.
La parabola di Arquitetura Nova si conclude con l’ascesa della dittatura: eppure la mostra prosegue oltre, con una sezione di coloratissimi dipinti.
Con il colpo di stato del 1964, il sogno del gruppo di fondare una nuova società si infrange: mentre Flávio si rifugia nel misticismo, Rodrigo e Sérgio entrano nella resistenza armata, tanto che nel 1970 sono arrestati, torturati e incarcerati per un anno. Qui Sérgio darà vita a una delle esperienze più straordinarie della sua carriera: un laboratorio di pittura per i detenuti, la cui produzione di artefatti è stata salvata e conservata dall’artista prigioniero Alipio Freire. Dopo aver visitato il suo atelier, Damani e io abbiamo capito che era una testimonianza fondamentale per comprendere l’epoca, per cui l’abbiamo fortemente voluta a chiusura della mostra.
Seguendo l’impostazione generale della biennale, i curatori Damani e Galofaro hanno posto Dreams seen up close in dialogo con materiali in collezione al FRAC e progetti contemporanei: qual è stato il criterio di selezione?
Esposte nelle navate laterali della Collegiale, le scuole a Cuba di Ricardo Porro, l’intervento di Lacaton & Vassal nel quartiere Grand Parc di Bordeaux e la Buto House raccontata da Bêka & Lemoine riprendono la riflessione sulla solitudine, tema generale della biennale. È un montaggio di autori e progetti provenienti da contesti geografici e temporali molto diversi fra loro: eppure, suggeriscono relazioni interessanti tra materiali, tipologie e soluzioni formali.
E poi c’è il lavoro della ONG Usina_Ctah…
A differenza degli altri autori, fra Arquitetura Nova e Usina_Ctah c’è una relazione ben nota: il primo a proporla è stato proprio uno tra gli animatori del collettivo di San Paolo, Pedro Fiori Arantes. Alla fine degli Anni Ottanta, interrogandosi su come intervenire di fronte alla drammatica crisi abitativa delle città brasiliane, Usina è tornato a riflettere sul ruolo dell’architetto: nei processi di costruzione di alloggi cooperativi che la ONG promuove con i movimenti per la casa rivive l’idea del cantiere come strumento di partecipazione e formazione di una nuova società.
In questo lavoro sei stato aiutato da una “fonte” d’eccezione come Sérgio Ferro. Com’è stato confrontarsi con lui?
Sérgio è un maestro, e come tale mi ha lasciato totale libertà. Abbiamo però condiviso alcune scelte, come i quadri da esporre o quali case presentare con i grandi plastici realizzati da Modelab. Ma soprattutto abbiamo parlato a lungo: è una persona molto generosa, di cui continuerò a raccontare la storia.
Ci puoi anticipare qualcosa?
Sono in cantiere vari progetti, fra cui un libro, il primo non in lingua portoghese, e la possibilità di portare la mostra a Londra. Senza contare tutto il materiale ancora inedito conservato negli archivi della FAU di San Paolo e dell’Istituto di Studi Brasiliani: ci sarebbero numerose altre mostre da fare. Il sogno però è costruire un’ultima volta con Sérgio e un gruppo di studenti tra Europa e Brasile, perché è il cantiere una delle frontiere cruciali dell’architettura come insegnamento e questione politica.
‒ Marta Atzeni
Orléans // fino al 19 gennaio 2020
Nos Années de solitude
Biennale d’Architecture d’Orléans #2
http://www.frac-centre.fr
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati