Disegnare è quasi come respirare. Parola all’architetto Adolfo Natalini
A quarant’anni dall’avvio dell’attività professionale autonoma, incontriamo Adolfo Natalini per una conversazione a tutto campo. Dall’insaziabile passione per il disegno fino al ricordo di Cristiano Toraldo di Francia
Era il 1979 quando avviava l’attività professionale in forma autonoma. Com’è mutata la sua “identità professionale” in questi quarant’anni?
Dopo il periodo dell’avanguardia in cui firmavo Adolfo Natalini/Superstudio (1966-78), c’è stata “una linea d’ombra” coi progetti per Frankfurt am Main e Alzate Brianza, poi una fase di regionalismo critico come Adolfo Natalini (1978-91). Dal 1991 ho praticato una “architettura di resistenza“, definita in Olanda da Hans Ibelings come “a-modern architecture” (con l’ “a” privativa), firmando i progetti come “Natalini Architetti” con Fabrizio Natalini. Così da 30 anni, lavorando in Italia, Germania e Olanda.
Individuando un progetto per ciascun decennio, quali interventi sceglierebbe?
Approfittando del fatto che mi chiedete di selezionare quattro progetti identificativi, il primo è il progetto per il Cimitero Monumentale dell’Antella, un progetto lungo una vita: iniziato il giorno in cui mi sono laureato nel 1966, ripreso nel 1998 e (quasi) completato nel 2009. Il secondo è la ricostruzione del centro storico di Groningen, a seguito della vittoria in un concorso internazionale e un referendum popolare (83,6%). È stato il primo progetto “a-modern” di una lunga serie: volevo ripartire da Berlage. Il terzo, il Polo Universitario a Porta Tufi a Siena (1995-2000), una solida architettura senese di mattoni e travertino, vicina alle mura. Il quarto è l’ampliamento del Museo dell’Opera di S. Maria del Fiore, Firenze (2001-2015), in collaborazione con Guicciardini&Magni, antichi allievi e collaboratori ed ora autori di allestimenti e musei in tutto il mondo.
Proprio in quest’ultimo Museo, da poche settimane, è arrivata anche la Porta sud del Battistero. Ritiene che le riflessioni che da sempre la accompagnano sul valore della storia e della memoria in questo complesso intervento museografico abbiano acquisito una forma compiuta e particolarmente riuscita?
Nel Museo dell’Opera abbiamo avuto un’occasione eccezionale di confrontarci con un palinsesto fatto di architetture e opere d’arte. Abbiamo cercato di sovrapporre i nostri segni a quelli di altri, attraverso evocazioni, costruzioni e allestimenti. Vorremmo poter dire come il Ghiberti delle sue porte: “È la più singolare opera che io abbia prodotto: e con arte e misura et ingegno è stata finita…“.
Restando a Firenze, come valuta il tentativo, promosso dall’attuale amministrazione, di attivare una relazione più profonda tra centro storico e fiume Arno riattualizzando e integrando il progetto redatto da Richard Rogers, nel 1986?
Il progetto di Richard Rogers per l’Arno rientra nella lunga serie delle occasioni perdute di una città che odia l’architettura (e gli architetti), campando di rendita sul suo splendido passato. Il rapporto con l’Arno è ambiguo, spesso basato sulla paura dell’alluvione. Speriamo che cambi.
La recente mostra che le ha dedicato il Museo Novecento Firenze ha posto l’accento sulla centralità della pratica del disegno nella sua vita. In quale modo questo esercizio, così assiduo e insostituibile, ha influito sul suo approccio alla progettazione?
Disegno dal 1954, senza talento ma testardamente ogni giorno: una sorta di respirazione. Col disegno rappresento l’esistente, cercando di capirlo, e quello che ancora non esiste, cercando di dargli una chiarezza che gli permetta di esistere. Con il disegno cerco di immaginare la convivenza tra la nuova architettura e il luogo, cerco di immaginare come funzionerà, come la vedranno e l’abiteranno. Cerco il suo posto nel tempo e nello spazio graffiando la carta.
Anche in considerazione del suo rapporto privilegiato con la pittura e il disegno e ricordando le sperimentazioni avanzate con Superstudio, cosa ne pensa della rappresentazione digitale dell’architettura?
Non sono un nativo digitale e non so usare un computer per disegnare, quindi le mie opinioni sono falsate dall’ignoranza. Posso solo dire che la rappresentazione digitale crea immagini seducenti ed omologanti: se misurate l’area occupata dall’ architettura e quella occupata dal cielo, alberi, persone e cose, di solito quest’ ultima è più grande di quella dell’architettura. I grandi architetti e disegnatori di prospettive architettoniche mettevano in risalto gli aspetti essenziali delle architetture. Poi, magari, ci disegnavano lo sfondo.
Il 2019 è scomparso Cristiano Toraldo di Francia. Insieme siete stati protagonisti di una stagione, forse irripetibile, che molti studenti e giovani architetti continuano a osservare con sincera ammirazione. Nel suo appassionato ricordo, pubblicato sul Corriere Fiorentino, ha scritto che “Firenze non è mai stata grata con i suoi figli migliori”. C’è qualcosa che la città oggi potrebbe fare per dimostrare all’architetto una forma di gratitudine, seppur postuma?
Cristiano Toraldo di Francia è scomparso in esilio da Firenze, ma fortunatamente ha continuato a produrre opere nelle Marche. La città dovrebbe onorare chi se lo merita da vivo. Per i morti resta il ricordo… Cristiano avrebbe diritto a un “risarcimento” per come è stato trattato, ma non so in quale forma: mi auguro che qualcuno la trovi.
-Valentina Silvestrini
http://www.nataliniarchitetti.com/
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