“Mi capirete tra quarant’anni”. Marco Bazzini ricorda l’architetto Adolfo Natalini
Marco Bazzini, ex direttore artistico del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, ricorda l’architetto Adolfo Natalini, scomparso pochi giorni fa. Un omaggio al suo lavoro, tra spinte radicali e scetticismo.
Negli ultimi tempi ripeteva come un mantra: “Mi capirete tra quarant’anni”. Quel suo spostare il tempo nell’epoca dei pronipoti, e forse anche oltre, era pronunciato con quel suo tono di voce baritonale che, insieme al basco, te lo faceva subito intercettare tra i presenti, facendoti dire: c’è l’architetto Natalini. Eppure nel suo tempo lui è stato bene e ne è diventato anche uno degli indiscussi testimoni. Lo dimostrano le sue architetture sparse per il mondo così come i suoi accurati restauri, le riqualificazioni di molti musei oltre alla presenza di sue opere e disegni nelle collezioni di molti altri.
Sempre gioviale in pubblico, pronto alla battuta non tradendo mai la sua anima toscana, insieme a lui affrontavi qualsiasi argomento con gioia. Disponibile al confronto e a chiacchierate interminabili, ti apriva sempre nuove prospettive costringendoti a un’inversione a U, proprio come quella, almeno per noi, da lui compiuta ritornando a un’architettura costruita dopo i dirompenti anni della sperimentazione radicale con gli amici del Superstudio (Cristiano Toraldo di Francia, Giampiero Frassinelli, Roberto e Alessandro Magris, Alessandro Poli) e degli altri movimenti fiorentini e internazionali. Con ambedue questi indirizzi ha profondamente lasciato un indelebile segno sulla cultura del progetto italiana e non solo.
LA STORIA DI ADOLFO NATALINI
Nato a Pistoia nel 1941, in un primo momento si dedica alla pittura insieme agli amici Roberto Barni, Umberto Buscioni e Gianni Ruffi in quella che fu nominata da Cesare Vivaldi la “Scuola di Pistoia”, un episodio dell’italica Pop Art ancora tutto da riscoprire. Poi, però, scelse di fare l’architetto perché le due cose non potevano stare insieme, come a metà Anni Sessanta gli suggerì il suo professore Leonardo Ricci. Al contrario e a distanza di tanti anni, è possibile invece dire che in quest’impresa Adolfo Natalini è riuscito. Ha saputo tenere dentro il suo lavoro il pensiero concettuale, lo sguardo antropologico, la grande tradizione delle fabbriche rinascimentali, il genius loci, la cultura di massa, la sintesi delle forme. E forse non è stato solo un vezzo se la sua lunga carriera da professore ad Architettura a Firenze l’ha voluta trascorrere in un’aula dell’Accademia di Belle Arti e non in facoltà. Così come nel tempo ha saputo legare parola e disegno, grandi passioni che ha coltivato su quell’inesauribile taccuino, uno perché fatto di molti, che sempre era con lui. Pensieri e disegni che transitavano veloci nella sua testa come nuvole in cielo, e a quest’ultime più volte ritornava come elementi imprescindibili di un suo immaginario che ha saputo essere fedele nel saper mutare.
SPINTE E CONTROSPINTE
Quando una decina di anni fa al Centro Pecci come direttore iniziai a raccogliere per la collezione permanente opere e documenti di quel lampo di sperimentazione che è stato il radical fiorentino, Natalini nascose ancora una volta dietro un suo apparente scetticismo il vanto e il privilegio di averne fatto parte. Lo stesso atteggiamento che ebbe a cavallo tra gli Anni Novanta e Duemila, la prima volta che lo incontrai per la sezione di una mostra poi realizzata a Palazzo Fabroni qualche anno dopo e successivamente al MAMCO di Ginevra.
Negli ultimi anni, invece, quest’atteggiamento di chiusura verso il suo esordio si era molto attenuato e non certo perché lui aveva fatto i conti con se stesso ma forse perché intravedeva che qualcuno, ben prima degli ipotizzati quarant’anni, iniziava a riconoscere come nel suo lavoro, fatto di spinte e controspinte, davvero tutto si tenga.
‒ Marco Bazzini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati