Milano: il “caso” del sopralzo della Villa Pestarini di Franco Albini
A settant’anni dalla sua realizzazione, il sopralzo della Villa Pestarini di Franco Albini pone interrogativi ancora irrisolti. Con una soluzione estetica in bilico tra la critica al linguaggio razionalista e la reinterpretazione del rapporto tra architettura e industria dei pionieri della Modernità.
È sotto gli occhi di tutti come la città di Milano sia ormai interessata da un vasto fenomeno di sviluppo in verticale. Basti ricordare che sette dei dieci edifici più alti d’Italia sorgono oggi all’interno del suo territorio comunale. Quello che appare invece meno evidente sono le origini di questa tendenza, che si mostra in prima battuta essenzialmente recente. Studiando però il tessuto storico della città, ci si rende facilmente conto che il grande progetto di crescita verticale ebbe inizio a partire dalla seconda metà degli Anni Quaranta, con la realizzazione delle torri urbane da un lato e con gli interventi di sopralzo dall’altro. Questi ultimi, da sempre molto discussi per il loro risultato formale, sono sostanzialmente guidati dagli antitetici principi di mimesi o distacco nei confronti dell’esistente. Nel primo caso si è spesso arrivati a quelle soluzioni che vedono l’introduzione delle cosiddette cappuccine, dallo scarso valore architettonico e ormai ben impresse nella memoria dei milanesi. Sicuramente più interessanti risultano, invece, i progetti basati sul distacco, ossia quelli capaci di affermare una propria autonomia culturale nei confronti del costruito, senza però prescindere da un rispettoso dialogo compositivo.
DA BBPR AD ALBINI
Ne è un bell’esempio la Palazzina UniCredit di via Verdi, per la quale nel 1966 lo studio BBPR pensò un moderno corpo in acciaio e vetro, che poggiasse sul tetto come una leggera navicella spaziale. Ma ancora più interessante, perché opera dello stesso architetto, è per chi scrive il sopralzo, datato 1949, della Villa Pestarini di Franco Albini in via Mogadiscio, realizzata circa un decennio prima nel 1937. L’intervento, richiesto dai proprietari, per poter godere di ulteriori spazi, costituisce un primo momento di svolta nella carriera dell’architetto milanese, fondamentale per comprenderne il profondo mutamento di linguaggio cominciato a partire dal secondo dopoguerra.
UNA DECISIONE SOFFERTA
Conoscere la travagliata vicenda del sopralzo di Villa Pestarini è sicuramente il primo ingrediente utile per rendersi conto di quanto possa essere complicato per un architetto, anche del calibro di Albini, ripensare un progetto precedentemente concluso. L’attuale proprietaria di casa ci ricorda, infatti, con quanta fermezza Albini si fosse inizialmente rifiutato di ampliare la villa: accettò l’incarico solo dopo aver appreso che la famiglia era pronta ad affidare i lavori a un altro studio milanese. Egli era evidentemente consapevole che se qualcuno avesse dovuto infrangere la composizione della sua opera, quello non poteva che essere lui stesso.
IL SOPRALZO
Il risultato fu così un sopralzo che si discosta nettamente dall’essenzialità e dal rigore del progetto originario. Alle lisce superfici murarie intonacate di bianco l’architetto preferì una lamiera ondulata in Eternit, materiale tipico dell’epoca della ricostruzione post-bellica. È tra i materiali conservati all’Archivio di Milano che si legge come questa lamiera “si pone in deciso contrasto con le pagine bianche degli alzati originari e con la semplicità che l’intonaco conferiva alla villa” (Franco Albini, Prospetti, villa Pestarini, 1949 (ACMi, Fondo Edilizia Privata, Via Mogadiscio 2, 81927, Villa P. a Milano ‒ progetto di sopralzo ‒ prospetti terza variante). Vennero meno anche le originali logiche compositive: i due volumi principali che caratterizzavano la geometria della villa furono inglobati sotto il nuovo corpo e gli allineamenti delle aperture sul fronte strada volutamente ignorati.
L’ESPRESSIONE DEL RAZIONALISMO ITALIANO
La Villa Pestarini, o meglio “la villetta” come la descrive Albini nei suoi disegni, rappresentava per gli Anni Trenta un felice risultato di quello che Le Corbusier intendeva con machine à habiter. Un progetto che, come scrisse Giuseppe Pagano sul numero 142 di Casabella-Costruzioni, “dà la misura di quella serietà professionale e di quella elevata sensibilità artistica che formano la piattaforma sulla quale deve fondarsi la vera architettura”. E ciò non poteva che derivare da una concezione semplice e razionale. Ecco che allora, da un punto di vista volumetrico, il disegno è costituito da due soli parallelepipedi giustapposti e traslati, che ospitano le differenti funzioni previste. Quello minore è dedicato agli spazi di servizio, mentre il maggiore agli ambienti di vita quotidiana. La pianta, inoltre, si distingue per il minimo spreco delle superfici utilizzate e, tema caro ad Albini, per l’estrema flessibilità interna, ottenuta con pareti scorrevoli e tende in tessuto pesante.
QUANDO IL PROGETTO SI FA OPERA D’ARTE
Come dimenticare poi l’attenzione per il dettaglio, la cura nei materiali, la passione per il colore che caratterizzano l’intera Villa? Tutti aspetti che, uniti alla ricercatezza scenografica degli spazi, indussero sempre Pagano a descriverla come un valido esempio di “razionalità artistica”. Essi contribuirono a rendere la casa un oggetto in sé compiuto, definito dalle sue stesse dimensioni, dalla sua forza plastica, perpetuo e inalterabile, pena la perdita di quell’ideale artistico così tenacemente perseguito. Albini era insomma giunto a realizzare quello che sarà il cristallo dell’architettura pontiana: un’opera d’arte che non può evolvere né progredire, che resta immobile. Ma, come abbiamo visto, l’immobilità non era il destino della villa.
UNA DOMANDA COMPLESSA
È doveroso allora chiedersi cosa possa aver spinto Albini a una scelta progettuale tanto drastica. L’interrogativo resta ancora aperto, ma sarà possibile offrire delle soluzioni plausibili. In primo luogo, appare lecito leggere l’intervento come una reinterpretazione personale del rapporto tra architettura e industria della modernità, collocandolo in una scia tipica degli Anni Quaranta e Cinquanta. Ma sicuramente la differenza materica induce a pensare che Albini non voglia solo mostrare le mutate condizioni culturali del periodo, ma anche il disincanto nei confronti delle speranze fino ad allora poste nel razionalismo e scomparse con i grandi regimi totalitari. Questo approccio diviene l’espressione tangibile delle ansie che accompagnarono l’aprirsi delle nuove prospettive architettoniche del dopoguerra italiano e che condurranno Albini alla redazione dei suoi progetti più maturi. In definitiva il sopralzo del 1949 si configura come un gesto che sembra allontanare un passato rivelatosi illusorio, senza però indicare una nuova strada. Questa si farà esplicita nelle future occasioni progettuali dei musei, in cui Albini sarà capace di esprimere i modi in cui tradizione e presente, antico e moderno possono combinarsi, rinnovando quel linguaggio eccezionale già osservato negli allestimenti giovanili.
‒ Giuseppe Galbiati
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