Giovani architetti italiani a Berlino. Nel segno della rigenerazione urbana
Cosa vuol dire essere architetti, avere 27 anni e spostarsi da Roma a Berlino per un’esperienza di lavoro? Arturo Becchetti e Fabrizio Felici hanno vinto il Premio Berlino, il riconoscimento promosso da MiBACT e MAECI. In questa intervista, raccontano il semestre nella capitale tedesca e cosa stanno imparando nel campo della rigenerazione urbana.
Classe 1992, ferrarese uno, romano l’altro, Arturo Becchetti e Fabrizio Felici hanno vinto la terza edizione del Premio Berlino, l’iniziativa congiunta della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del MAECI e della Direzione Generale Creatività contemporanea del MiBACT, in collaborazione con ANCB The Aedes Metropolitan Laboratory. “Abbiamo maturato un’idea di architettura che non si esplichi solamente in un mero esercizio estetico o formale, ma che si esprima nella sua capacità di inserirsi nel contesto in un rapporto di dialogo e armonia”, raccontano all’unisono commentando il semestre di formazione professionale che stanno trascorrendo nella capitale tedesca. A Berlino operano nel campo del riuso e della rigenerazione urbana, affrontando un tema urgente, al quale si erano avvicinati già durante il percorso universitario. I due architetti, infatti, dopo la laurea magistrale in Progettazione Architettonica presso l’Università Roma Tre, avevano iniziato a operare in questo ambito grazie a esperienze extra-accademiche: dalla partecipazione a concorsi internazionali fino all’attività editoriale. A Berlino le loro strade si sono momentaneamente divise, avendo lavorato per studi di architettura e progetti diversi: presso TOPOTEK1 uno, in gmp Architekten von Gerkan, Marg und Partner l’altro.
L’INTERVISTA A BECCHETTI E FELICI
In base a quali criteri avete scelto gli studi di architettura con cui collaborare?
Arturo Becchetti: Tutte le mie esperienze pregresse mi hanno portato alla scelta dello studio Topotek1, famoso per progetti di spazi pubblici divenuti veri e propri landmark per il paesaggio urbano, capaci di generare una spinta di riqualificazione nelle aree in cui si inseriscono. Tra i vari lavori a cui ho collaborato ricordo, in particolare, quello per il concorso di riqualificazione del quartiere Siemensstadt a Berlino. Si tratta di un concorso su invito, proposto da Siemens insieme al Land di Berlino, già concluso e che purtroppo non abbiamo vinto, ma che mi ha permesso di immergermi a 360° nel lavoro dello studio.
Fabrizio Felici: La mia scelta è ricaduta sullo studio Von Gerkan, Marg und Partners Architekten, ispirandomi alla loro storica attività nel settore delle infrastrutture e dei grandi interventi urbani, ma anche in ambito artistico, sportivo e culturale. Mi sono dedicato, in particolare, a un concorso bandito dall’ente televisivo RBB, nell’area di Westend, che si presenta racchiusa da un complesso sistema infrastrutturale e fieristico. In virtù dell’analisi precedentemente svolta, che ha individuato l’area come una possibile nuova polarità, l’obiettivo era formulare la proposta di un campus connesso alle nuove tecnologie di comunicazione e immerso nel verde, in modo da determinare un trend evolutivo in grado di modificare le inclinazioni delle altre realtà esistenti sull’area e avvicinare soprattutto l’interesse dell’amministrazione pubblica e dei cittadini.
Com’è lavorare a Berlino? Come si presenta il modo di intendere la progettazione degli studi berlinesi? In che termini è possibile un confronto con l’Italia?
Arturo Becchetti: È un’esperienza molto formativa. Topotek1 è una realtà dinamica e internazionale, ci sono tanti giovani architetti, si parlano diverse lingue e si condividono aspetti di diverse culture. Lo studio sta avendo molto successo e lavora a progetti in tutto il mondo. È molto interessante vedere come cambia il modo di porsi in funzione del contesto culturale in cui si progetta. Lo studio è diviso in dipartimenti: Design and Competition, Construction e Architecture e, dunque, i lavori sono organizzati a seconda delle competenze, ma è facile che vi siano collaborazioni trasversali. In Italia non ho mai lavorato in studi di queste dimensioni, per cui il cambio di scala rende difficile il confronto. In contesti così grandi cambia la forza lavoro, l’assunzione di responsabilità e, di conseguenza, la mole di attività che puoi svolgere e la portata dei progetti che puoi affrontare.
Fabrizio Felici: Personalmente, il paragone con l’ambiente italiano è un po’ forzato dato che a Roma ho lavorato solo per un piccolo studio, in cui comunque ho fatto delle esperienze interessanti. GMP Architekten, lo studio in cui lavoro adesso, è però uno dei più grandi d’Europa, opera in tutto il mondo, impostando in più di un’occasione un trend di approccio seguito poi da molti. Mi sono, quindi, trovato catapultato in una realtà super organizzata in cui il benessere dei dipendenti è una condizione necessaria al fine di svolgere un lavoro di qualità. È un ambiente di lavoro in cui si è portati a dare il massimo per il gruppo nel rispetto delle necessità dei singoli. Anche il confronto tra differenti formazioni e approcci all’architettura diventa, quindi, la base di un’esperienza formativa che può consentire di poter, poi, collaborare in qualsiasi ambito.
Come giudicate il contesto architettonico locale? Perché restare Berlino e perché tornare, invece, in Italia?
Arturo Becchetti: Berlino è una città che sicuramente sta investendo molto nel rinnovamento e nel coinvolgimento degli architetti, dimostrando una buona apertura mentale verso la sperimentazione. Detto questo vorrei un po’ ridimensionare il “mito”, secondo cui sia “facile costruire”: non è detto che l’imponente quantità di architettura contemporanea locale sia strettamente connessa alla qualità dei progetti. Ciononostante, il generale impegno nel trovare soluzioni è molto motivante e la cosa fondamentale è che mi sembra di percepire un dibattito attivo sull’architettura e la città, da parte delle istituzioni, dei privati ma anche dei cittadini. Chiarito questo, ci sono molte possibilità per chi vuole impegnarsi, l’ambiente è competitivo, ma l’impressione è che lavorare bene porti a risultati. Il mio ritorno in Italia è, invece, strettamente legato al concetto di radici, di cultura e, soprattutto, perché credo che il nostro Paese vada difeso e protetto, riqualificato e accompagnato in un processo di rigenerazione che parta proprio dal modo di pensare delle persone.
Fabrizio Felici: Lavorando per un nuovo concorso a Berlino, ho potuto comprendere quali siano gli interessi degli enti promotori sui nuovi interventi. La necessità di intervenire sullo spazio pubblico, prioritariamente o parallelamente allo sviluppo di un nuovo intervento, dimostra la capacità di comprendere quanto una singola opera architettonica, per quanto stilisticamente e funzionalmente efficace, non possa risolvere da sola i problemi di un organismo complesso come quello della città contemporanea. Ho riscontrato, inoltre, quanto questa sia una pratica diffusa sulla maggior parte dei moltissimi cantieri presenti ed è quindi uno stimolo continuo a voler partecipare attivamente alle dinamiche locali. In Italia ci sono alcuni luoghi in cui le trasformazioni urbane cominciano a realizzarsi, grazie a processi innescati da interessi privati e da municipalità lungimiranti. Credo, dunque, che l’ipotesi di lavorare in Italia non sia da scartare a priori e non credo alla generale sfiducia sulla capacità di resilienza del nostro Paese, pur venendo da un lungo periodo d’immobilità.
Tramite questa residenza avete ottenuto contatti o proposte lavorative?
Arturo Becchetti: L’Istituto Italiano di Cultura e Aedes Metropolitan Laboratory sono due buoni appoggi per cercare contatti, per le proposte di lavoro non siamo ancora alla fine della nostra esperienza. Si vedrà nei prossimi mesi.
Fabrizio Felici: Concentrandomi sul lavoro nello studio, la mia possibilità d’intraprendere attività nel mondo esterno è stata un po’ limitata, ma ho ancora alcune settimane per ampliare la mia rete di conoscenze e d’interessi. L’Istituto Italiano di Cultura ci ha dato, tuttavia, la possibilità di partecipare a molti eventi da loro organizzati, in cui si sono alternate figure molto interessanti provenienti da settori legati alla nostra attività professionale. Ho comunque già ricevuto proposte per rimanere qui a Berlino e sto prendendo il tempo di decidere.
Ambizioni e progetti futuri?
Arturo Becchetti: Rimanendo coi piedi per terra, a 27 anni è difficile fare programmi a lungo termine. Per ora voglio accumulare esperienze che mi consentano di crescere professionalmente e di acquisire una quantità di competenze tali da permettermi di lavorare autonomamente. Il grande sogno sarebbe avere uno studio, magari con Fabrizio, e poterci concentrare su progetti che ci appassionano. Sono consapevole che avviare concretamente un’attività professionale oggi presenti un oceano di incertezze, però mi piace fantasticarci. Mi piacerebbe anche impegnarmi socialmente, intendo essere attivo nella divulgazione delle mie competenze e nel metterle a disposizione delle istituzioni e della cittadinanza. Sto inoltre tenendo in considerazione l’ipotesi di un dottorato.
Fabrizio Felici: L’obiettivo è continuare ad approfondire e ampliare le nostre capacità nell’ambito architettonico non precludendoci nessuna possibilità, proprio come abbiamo fatto fino al raggiungimento del Premio Berlino. C’è la volontà di continuare a lavorare insieme o parallelamente (magari anche in un nostro studio). A livello personale, invece, credo che mi piacerebbe restituire qualcosa al territorio in cui sono nato e cresciuto, e in generale a tutti i luoghi che necessitano di essere valorizzati. La riattivazione di un territorio rurale, attraverso una nuova visione delle sue capacità produttive, potrebbe dare molto a tutto il Paese e dunque sto ponderando la possibilità di approfondire questo settore.
‒ Arianna Piccolo
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