Architetti d’Italia. Leonardo Savioli tra progettazione e arte
Luigi Prestinenza Puglisi ripercorre la storia dell’architetto Leonardo Savioli, al confine tra progettazione e arte.
Ci sono pochi architetti italiani che sono stati tanto amati quanto Leonardo Savioli. Anche dentro l’accademia, che è un mondo pieno di veleni e risentimenti. Di Savioli erano amici ed estimatori personalità spigolose e con caratteri certo non facili quali Giovanni Michelucci, Leonardo Ricci, Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi, Adolfo Natalini. E ancora oggi i suoi ex allievi dell’Università di Firenze lo ricordano come un maestro impareggiabile. Tanto che, alcuni giorni fa, appena ho postato la notizia che avrei scritto il suo profilo, sono apparsi decine di commenti: “non vedo l’ora”, “il mio preferito”, “un gigante dell’architettura italiana del Novecento”, “un mito”, “con lui ho trascorso giorni da studente indimenticabili”, “uno dei Leonardo, l’altro è Ricci, della mia formazione universitaria”.
Se ho aspettato tanto ad affrontare Savioli, c’era però una ragione. Facevo fatica ad apprezzare le sue opere brutaliste quali la casa in via Piagentina o gli interventi residenziali per Sorgane. Mentre pensavo che la sua opera migliore, e cioè il Mercato dei Fiori a Pescia del 1950-51, fosse merito soprattutto di Leonardo Ricci. Tra gli edifici da me amati, rimanevano la casa e lo studio a Galluzzo e il nuovo Mercato dei Fiori (1970-1988) a Pescia. Quest’ultimo però differiva non poco dalla restante produzione edilizia di Savioli. Quasi una eccezione: per la struttura strallata sorretta da piloni esili e svettanti, per la relativa semplicità dei prospetti, per una concezione spaziale degli interni giocata sui vuoti invece che sulla dialettica complessa dei volumi nella continuità degli spazi, che era il tratto dominante della sua opera. Un capolavoro certamente anticipatore di progetti tecnologicamente avanzati quali il Centro Pompidou a Parigi di Gianfranco Franchini, Renzo Piano e Richard Rogers: lo stesso Savioli ricordava che il suo progetto era del 1970 e l’altro del 1971 e che Piano aveva studiato per qualche anno a Firenze. Ma si trattava comunque di un edificio che non aveva avuto seguito nella restante produzione di Savioli se non forse nei due concorsi per gli aeroporti di Genova e di Lamezia Terme (1970-71) in cui continuò a sperimentare ampie superfici a pianta libera.
SAVIOLI ARTISTA
Savioli era un artista coinvolto nelle problematiche dell’Espressionismo astratto e dell’Informale. Autore di disegni e quadri densi e coinvolgenti che mostrano una cultura artistica sofisticata, cosa abbastanza rara negli architetti i quali sovente praticano l’arte da orecchianti e in ritardo, mostrando di essere ancora fermi al realismo o alla Metafisica. Devo confessarvi che soffro quando vedo i disegni classicheggianti di Alessandro Anselmi, le caffettiere di Aldo Rossi o i cavallucci di Santiago Calatrava. Savioli, oltre a essere aggiornato, aveva una mano particolarmente felice. Doveva essere un dono di natura e si dice che disegnasse usando in contemporanea la destra e la sinistra. Era un personaggio di grande cultura, non un artista di semplice istinto. I suoi ex studenti ricordano ancora lo spazio che nelle lezioni lasciava all’arte a cominciare da Cézanne e dal Cubismo, che, a ragione, poneva all’inizio della nuova visone del mondo inaugurata dalle avanguardie.
Come era possibile, mi chiedevo, che un uomo artisticamente colto e formalmente tanto dotato realizzasse edifici che sembravano rivisitazioni di Kenzo Tange o del Le Corbusier Anni Cinquanta? Ma, soprattutto, come era possibile che l’artista frammentasse l’unità della figura, mettesse in gioco esplosioni di energia vibrante, descrivesse uno spazio esistenziale lacerato e organizzato lungo linee forza e, invece, l’architetto realizzasse volumi caratterizzati da escrescenze, quali finestre sporgenti, balconi fuori asse, tetti pesanti e volumetricamente ingombranti? Come se ci fossero due Savioli distinti: l’artista che brucia e disarticola la materia e l’architetto che della stessa ne patisce il peso.
Savioli raccontava ai suoi studenti che lo spazio si tocca. Ma come si può toccare lo spazio se non incontrandovi oggetti plasmati dalla mano dell’uomo?
Se, a questo punto, osserviamo i plastici di studio più che gli edifici realizzati, ci accorgiamo che nascono da un accumularsi di oggetti, da uno stratificarsi di linee e masse di diverse consistenze e geometrie. Come in quadro informale. In cui, appunto, lo spazio si tocca con le mani, ed è manipolato e manipolabile attraverso gli oggetti che lo compongono. Come nei suoi magnifici disegni ispirati ai quadri manieristi in cui le figure esplodono generando lacerti spaziali che scaricano sul disegno una carica energica. Il risultato è un disegno frammentato ma, insieme, unitario.
IL RAPPORTO TRA SAVIOLI E I SUOI STUDENTI
Lo spazio delle cose, in cui gli oggetti fluttuano, attivando processi di attrazione e repulsione, è l’ambiente degli uomini. Che negli edifici vivono, si muovono, si incontrano.
Da qui la passione che gli studenti fiorentini avevano per il loro maestro. Giovani che negli anni della contestazione vedevano nelle sue parole la chiave per rinnovare la stanca architettura del Movimento Moderno. E superare l’immobilismo etico che le letture formaliste dei protagonisti, da Le Corbusier a Mies van der Rohe, poteva generare.
Si trattava nella sua realizzazione pratica, tuttavia, di una tensione irrisolta, di un manierismo che, come notarono Bruno Zevi e Giulio Carlo Argan, oscillava tra il polo della razionalità e quello dell’informale. E, forse, detto per inciso, fu questa indecisione che rese alcune sue opere meno convincenti di quanto lo siano i suoi plastici o lo fosse il suo vivo insegnamento.
Tra gli assistenti di Savioli, per una decina di anni, ci fu Vittorio Giorgini, un personaggio che solo ora stiamo imparando a rivalutare. Nell’archivio Giorgini, mi ha raccontato Marco Del Francia, si trovano numerose tesi di laurea dei protagonisti dei gruppi radical fiorentini dei quali Savioli era stato relatore e lui correlatore.
E, poi, come assistenti, arrivarono Adolfo Natalini, di Superstudio, e Paolo Deganello, di Archizoom. Savioli, seguendo le sollecitazioni dei due, impostò a fine Anni Sessanta il suo corso sul tema, certamente influenzato dalla cultura pop, delle discoteche. In fondo, lo spazio vertiginoso di locali quali il Piper era fonte preziosa di informazioni sulla nuova architettura più del Pantheon o del tempio greco. Scriverà Bruno Zevi: “L’università è deleteria per qualsiasi architetto senza eccezioni e lo è stata certamente anche per i due Leonardi (Ricci e Savioli). Però Savioli ha plasmato una scuola, vertebrando un costume professionale di qualità”. Non so quanto Natalini, che degli allievi è stato il più noto, ne abbia tradito lo spirito.
IL VISSUTO DI SAVIOLI
Amato dalle avanguardie e dai contestatori, Savioli è tuttavia un uomo di altri tempi, che vive il progresso come un ineluttabile destino. Chiuso nella sua incantevole casa studio con vista sulla certosa di Galluzzo, lo pratica poco. Sposa una coetanea, Flora Wiechmann, anch’ella artista, con la quale avvia una relazione romantica da libro delle favole; non guida la macchina; conduce una vita monastica. La salute non lo aiuta. Aveva passato lunghi periodi tra il 1940 e il 1942 a letto. Soffre di cuore. È instancabile nel lavoro. Le sue lezioni universitarie sono preparate meticolosamente. La morte, che lo aveva risparmiato nel periodo della malattia, lo accompagna, come pensiero fisso, nelle proprie attività. Prima di iniziare il lavoro, telefona a un amico o a un assistente. Solo per scambiare qualche frase e rigenerarsi con la consapevolezza che il mondo esiste e ancora lo circonda. Anche la vita, come lo spazio, si plasma e la si deve toccare con mano. Scompare nel 1982. Nessun professore è stato amato e rimpianto come lui. La sua opera attende di essere compresa, nel suo rapporto stretto e non sempre facilmente risolto tra arte e architettura.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
LE PUNTATE PRECEDENTI
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Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
Architetti d’Italia#9 – Michele De Lucchi
Architetti d’Italia#10 – Vittorio Gregotti
Architetti d’Italia#11 – Paolo Portoghesi
Architetti d’Italia#12 – Mario Cucinella
Architetti d’Italia #13 ‒ Mario Bellini
Architetti d’Italia #14 ‒ Franco Purini
Architetti d’Italia #15 ‒ Italo Rota
Architetti d’Italia #16 ‒ Franco Zagari
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