Il futuro dell’architettura. Intervista a Martha Thorne, direttrice del Pritzker Architecture Prize
Come sarà il mondo dell’architettura post-pandemia? E quale sarà il ruolo delle donne in questo ambito fra vent’anni? Sono solo alcune delle domande che abbiamo rivolto a Martha Thorne.
Uguaglianza di genere, formazione in ambito architettonico, scenari post-pandemia: una conversazione a tutto campo con Martha Thorne, che presiede la IE School of Architecture and Design e dal 2005 è Executive Director del Pritzker Architecture Prize.
Il 2020 è iniziato con il Pritzker Architecture Prize a Grafton Architects; un’assegnazione rapidamente oscurata dalla pandemia, che ha monopolizzato il dibattito interno alla professione. In qualità di Executive Director del Pritzker Architecture Prize, quale ritiene sarà l’impatto di questo premio nel mondo dell’architettura, in particolare in relazione all’uguaglianza di genere?
Il Pritzker Architecture Prize del 2020, per la prima volta nella sua storia, è stato assegnato a due donne che da decenni lavorano e guidano il loro studio insieme. So che Yvonne Farrell e Shelley McNamara vogliono essere riconosciute per la qualità del loro lavoro e del loro servizio all’umanità: i due obiettivi dichiarati del Premio Pritzker. Il loro lavoro, edifici esemplari costruiti in diversi Paesi, riflette chiaramente i più alti standard del Premio.
Penso che l’assegnazione del Premio manifesti anche un’evoluzione nella comprensione della professione e del riconoscimento stesso. Due persone con un modo di lavorare collaborativo sono state premiate, mostrando un modello diverso da quello dell’“autore solitario” di un edificio. Sono due professioniste che lavorano insieme, non si tratta più della “classica squadra” formata da marito e moglie. Infine, in quanto donne riconosciute da un premio estremamente importante, aumenteranno la visibilità e il riconoscimento delle tante donne di talento che oggi praticano l’architettura e che ancora non ricevono l’attenzione che meritano. Dato che la pandemia ha reso impossibile organizzare una cerimonia in un luogo fisico, stiamo realizzando un film celebrativo che sarà divulgato a ottobre 2020.
Durante il lockdown, gli architetti internazionali hanno sviluppato proposte e previsioni sul mondo post-pandemico, talvolta rischiando la sovraesposizione mediatica. Ma cosa rimarrà di tutte queste visioni del futuro? Ritiene possibile una sorta di “grande iniziativa globale” per tracciare linee guida comuni e condividere le migliori idee? In altre parole, gli architetti saranno davvero in grado di contribuire a questo auspicato “nuovo mondo”?
Sono decisamente ottimista circa le capacità di architetti e designer di avere un impatto duraturo nel mondo post-Covid. Non credo avverrà tramite una “iniziativa globale” unitaria: in fondo ogni luogo è diverso, con parametri e culture differenti. Stiamo già condividendo molte idee e ricerche, grazie alla stampa e alle nostre istituzioni accademiche. La pandemia ha toccato ognuno di noi. Ora siamo più consapevoli che mai di quanto siamo interconnessi e di quanto imprevedibile possa essere il futuro. Credo che cercheremo di ritrovare un senso di sicurezza, libertà e connessione con gli altri; tuttavia, per farlo, avremo bisogno di nuovi modelli di spazio fisico. Questi modelli devono essere progettati per essere flessibili, adattarsi alla distanza sociale, alla facile manutenzione e all’accessibilità.
L’esperienza condivisa del confinamento domestico ha acceso i riflettori sull’edilizia residenziale e sui suoi limiti. Dopo la pandemia, quale settore dell’architettura risentirà dei maggiori cambiamenti? Forse la pianificazione urbanistica?
Credo che rileveremo cambiamenti su tutte le scale, dai piccoli dettagli alla dimensione urbana. Probabilmente noteremo più porte automatiche e distributori per il lavaggio delle mani negli ingressi di molti edifici. D’altra parte, sulla scala urbana, abbiamo già bisogno di più spazi pubblici aperti per consentire il distanziamento sociale e molteplici usi, a seconda del luogo e dell’ora del giorno. Spero anche che avremo una pianificazione urbana più flessibile e meno zoning monofunzionale. È diventato chiaro che i nostri quartieri sono estremamente importanti durante una fase di pandemia. I quartieri vivaci ed equilibrati che possono aiutarci a soddisfare le nostre esigenze nell’arco di pochi passi, in cui si accede a una varietà di servizi e opportunità e che ci aiutano a sentirci legati a una comunità, sono i più riusciti.
Dal 2015 lei presiede la IE School of Architecture and Design, che nell’insegnamento della disciplina adotta un approccio multidisciplinare e “pratiche alternative”. Quali sono i risultati di questo metodo?
IE School of Architecture and Design offre corsi di laurea completamente accreditati e, credo, un approccio educativo molto rigoroso, ampio e completo. L’architettura è intrinsecamente un campo multidisciplinare che combina storia, arte, tecnologia, scienze sociali e scienze pure, tra le altre. Quello che facciamo nella nostra scuola è assicurarci che gli studenti abbiano il potere di capire il mondo in cui vivono. E, quando praticano architettura e design, dispongano degli strumenti per analizzare il contesto nelle sue molteplici sfaccettature, riuscendo a fare proposte positive per il futuro. Devono anche comprendere l’impatto di una nuova proposta sulle persone, sulla comunità e sull’ambiente in generale. Il tema delle pratiche alternative si basa sulla convinzione che ci siano molti modelli e molti modi per praticare l’architettura. In qualità di istituzione accademica, il nostro compito è fornire un’istruzione che apra agli studenti le porte della loro carriera. Non tutti vogliono aprire un piccolo studio ed essere un progettista. Pensiamo che una mentalità imprenditoriale ‒ vedere nuove opportunità e modi di fare le cose ‒ sia ciò di cui gli studenti di architettura hanno bisogno nel mondo dinamico di oggi. E anche in quello di domani.
Torniamo, in chiusura, al tema della parità di genere. Rispetto a pochi anni fa, il ruolo delle donne in architettura sta evolvendo in modo significativo: premi dedicati, più progetti realizzati, maggiore copertura mediatica. Allo stesso tempo, nuove analisi (tra cui quelle del libro Invisible women) puntano i riflettori sullo spazio pubblico, incoraggiando a riflettere sul rapporto tra stereotipi di genere e progettazione. Come immagina il futuro delle architette nei prossimi 20 anni?
Chiaramente, le donne hanno fatto passi da gigante negli ultimi anni. La crescita dei premi, delle organizzazioni e dell’attenzione riservata alle donne in architettura è come “un’onda forte”: ci ha spinto molto in avanti. Sarà difficile tornare al precedente status quo. Tuttavia, ci sono molte contraddizioni nel campo dell’architettura ed è noto che, in tempi di crisi, le donne e le minoranze sono le più colpite. L’architettura e l’urbanistica sono state tradizionalmente dominate dagli uomini con i conseguenti pregiudizi di genere. Costruire le nostre città è un’impresa molto lenta e costosa. La mia speranza è che i pregiudizi più sottili ‒ nei luoghi dell’istruzione, negli studi professionali, negli edifici e nelle nostre città ‒ vengano alla luce e diventino parte del dibattito che è necessario per realizzare il cambiamento. Per quanto mi riguarda, credo fermamente nell’istruzione come catalizzatore del cambiamento. Dobbiamo continuare a mettere in discussione la situazione e le strutture attuali e spingere per un cambiamento equo e significativo se vogliamo creare le opportunità e il futuro appagante che le architette meritano.
‒ Valentina Silvestrini
https://www.ie.edu/school-architecture-design/
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