Costruire un nuovo Medio Oriente: l’architettura di Ben Gitai

Parola a Ben Gitai, astro nascente della architettura mediorientale, che guarda alla sostenibilità e al futuro come strumenti per progettare in aree politicamente delicate. Ad esempio al confine tra Giordania e Israele.

A colloquio con l’architetto israeliano Ben Gitai (Parigi, 1985), una delle voci giovani e interessanti dell’architettura contemporanea mediorientale. In un’area geopolitica fra le più problematiche del pianeta, cerca di rivestire i suoi lavori di significati e risvolti sociali, puntando l’attenzione sulla memoria storica e sul contesto culturale. Ed è pronto ad accogliere le nuove sfide poste dalla pandemia.

Quali sono i caratteri peculiari della sua idea di architettura? Qual è la “personalità” degli edifici che sviluppa?
Atmosfera, sintassi culturale, progettazione di un’architettura ecologica, pianificazione dei confini, topologia e sostenibilità sono i principali elementi nella mia pratica di progettazione. La “personalità” che il mio edificio esprime include una specifica materialità, spiritualità e sensualità che deriva dalla combinazione dell’esperienza visiva e sonora dello spazio.

Che funzione svolge la sostenibilità ambientale nella sua pratica?
Ha un ruolo fondamentale nel mio approccio filosofico al design e nella sua applicazione costruttiva, come dimostrano vari progetti, fra cui i recenti Jaffa Roofhouse, Earth Memorial e The Landroom Observatory. La sostenibilità è un punto centrale nella mia pratica, che è al limite del paesaggio e dell’architettura. Attraverso ogni progetto cerco di dimostrare che il design ecologico e l’artigianato locale sono in grado di mediare le prestazioni tra questioni ambientali, suolo e territorio.

Come combina la cultura israeliana antica e le sue tradizioni con l’architettura contemporanea?
La creazione consiste nella comprensione geofisica di ciò che si trova nella memoria di questa terra senza tempo, soprattutto nelle sue stratificazioni geologiche, cioè quel particolare luogo in cui si incontrano materialità e storia. Cerco di esplorare le morfologie preesistenti dei paesaggi per ogni singolo edificio o pezzo di design che creo. Quindi provo a reinventare quelle forme e quei materiali nei processi creativi di design di nuova espressione, applicandoli all’architettura, per creare una nuova plasticità basata su una già esistente all’interno di un approccio che sia contestuale alla conoscenza dell’ambiente e del territorio.

Citava il padiglione The Landroom Observatory fra i suoi progetti recenti. Mimetizzato nel paesaggio roccioso del deserto del Negev, sembra guardare sia al passato che al futuro. Può raccontarlo più nel dettaglio?
Il progetto esamina la relazione tra materiale e spazio territoriale e il modo in cui si definiscono a vicenda. Mantiene un dialogo interno ed esterno con la geografia circostante, ovvero il Ramon Crater, in Israele, permettendo così una connessione fra lo spazio e il paesaggio culturale.

Ben Gitai. Photo Dan Bronfield

Ben Gitai. Photo Dan Bronfield

PANDEMIA, ARCHITETTURA E POLITICA

In che modo la pandemia ha influenzato l’architettura? Pensa che ci saranno nuovi modi di concepire gli edifici per affrontare un’altra eventuale crisi sanitaria?
La pandemia ha colpito radicalmente l’architettura. Ha messo in luce caratteristiche spaziali di demarcazione, come confini, tracce e stanze, che non sono più rilevanti per la nuova epoca che ci attende. Questi metodi di costruzione esistenti necessitano di un ripensamento, per questioni igienico-sanitario legate agli spazi chiusi e a elle infrastrutture tecniche (come gli impianti di ventilazione, ecc.). Un nuovo modo di concepire un edificio è quello di pensare al concetto di capsula: significa incapsulare uno spazio e capire come le “capsule” possano interagire tra loro pur essendo parte dello stesso concept. Il mio primo tentativo è stato quello di costruire The Landroom Observatory, così da capire il limitato punto di vista di due persone sedute in uno spazio pubblico ristretto mentre osservano la natura che, all’esterno, sta cambiando radicalmente durante la pandemia.

Tra i suoi progetti rientra il Museum of Coexistence, che si candida a divenire un punto di incontro fra Giordania e Israele. Qual è il significato di un museo come questo? E come può l’architettura attivare una “forma di dialogo” o, al contrario, diventare uno strumento al servizio del potere?
In questa terra contesa, vedo molte cicatrici ma anche l’opportunità di utilizzare il mezzo del paesaggio e dell’architettura per guarire quelle ferite. Il Museum of Coexistence è un edificio nella Valle del Giordano, al confine israelo-giordano, che rappresenta l’interazione fra identità territoriale, patrimonio culturale mondiale e turbolenza geopolitica che il paesaggio fisico ha vissuto negli ultimi 150 anni. Lo scopo di un tale museo è quello di essere un agente attivo della memoria, che possa ricordare tempi diversi in cui questa zona e i suoi abitanti cooperavano per vivere insieme, in pace, nella stessa terra. L’architettura è il mezzo migliore per formare un dialogo, agendo come un ponte che collega entità diverse per formarne una. Quindi, questo edificio può essere un arco di confluenza e convivenza, dove culture diverse possono avere un dialogo costruttivo.

Un rendering del futuro Museum of Coexistence. Courtesy Gitai Architects

Un rendering del futuro Museum of Coexistence. Courtesy Gitai Architects

IL RUOLO DELL’ARCHITETTURA IN ISRAELE SECONDO BEN GITAI

L’architettura, dunque, come strumento anche politico. In Israele abbiamo visto la costruzione del muro lungo il confine palestinese, mentre la realizzazione di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania non si è mai fermata. Pensa che queste decisioni possano davvero contribuire alla pace nella regione?
L’architettura è uno strumento politico. Ecco perché il design non può solo raggiungere il livello dell’oggetto, ma deve estendersi al paesaggio, al territorio. Questo punto di vista più ampio è utile per comprendere il contesto fisico e storico di ogni alterazione del terreno (e un nuovo edificio lo è) e il suo design spaziale. In particolare, in Israele, non possiamo parlare solo di edifici o di blocchi, ma la nozione di territorialità dovrebbe essere parte della soluzione. Penso che costruire nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania sia un grave errore morale ed etico. Per questo tutti i miei progetti israeliani vengono realizzati al di qua della linea blu, mai oltre.

Il nuovo partito israeliano, Blu e Bianco, cerca di presentarsi come un vero strumento di cambiamento nella vita politica di Israele, che è fortemente legata ai rapporti con i palestinesi e i giordani. Ma per ora l’alleanza è fissata su questi punti: la Valle del Giordano resta in mano israeliana; nessun diritto palestinese al ritorno; Gerusalemme rimane la capitale indivisa di Israele. Alla luce di ciò, pensa che i cambiamenti possano venire dalla gente comune invece che dalla politica?
Penso che nessuna forma di governo si sia dimostrata fino a ora proiettando la sua ideologia e visione sulle persone (in tutti i lati). La mia conclusione è che l’unico modo per “federare le persone” è parlare prima dell’ambiente circostante; poi diventa chiaro che il paesaggio è un processo dinamico, che non è solo la causa. Bisogna capire come la scarsità di risorse naturali può essere il terreno comune sul quale le persone possono lavorare insieme, per vivere insieme.

Personalmente, quale contributo vorrebbe portare nella società israeliana attraverso il suo lavoro?
Vorrei continuare a creare edifici che pongono domande piuttosto che dare risposte. Vorrei che quegli edifici facessero parte del contesto culturale spirituale e materiale locale. Spero che, attraverso il mio lavoro, la società israeliana possa trovare gli echi del passato indirizzandoli verso un presente stimolante, cercando sempre soluzioni innovative per il futuro.

Niccolò Lucarelli

gitaiarchitects.com

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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