Biennale Architettura 2021. Commenti sul pezzo di mostra all’Arsenale di Venezia
Prime impressioni (e immagini) dalla Biennale Architettura di Venezia. Abbiamo cominciato dall’Arsenale dove, a dire la verità, c’è ben poca architettura
Primissima giornata di preview e, com’è comprensibile, non tutto è ancora pronto. L’ingresso alle Corderie dell’Arsenale è ostico: c’è un semaforo in caso di sovraffollamento (per fortuna era verde) e le sculture antropomorfe occludono lo statement del direttore Hashim Sarkis. che non si riesce a leggere. E tuttavia, si potrebbe interpretare quest’esordio come una scelta consapevole: la mostra è infatti “difficile”, con pochissime concessioni alla spettacolarità allestitiva sebbene a tratti impeccabilmente assemblata. D’altro canto, i temi sono ben delineati e chiaramente affrontati, senza troppi giri di parole e senza troppe sovrastrutture curatoriali.
A farla da padrone sono i concetti di alter-normalità e condivisione. Temi a sé stanti ma anche – e talora soprattutto – criteri con i quali affrontare vecchie e nuove questioni. Così è, ad esempio, con l’indagine geologica e stratigrafica dell’Acropoli di Atene (David Gissen, Jennifer Stagen & Mantha Zarmakoupi); con la riflessione sul rapporto fra umani e Intelligenza Artificiale (i “giocattoli” di Ani Liu); con l’indagine sociale attraverso la configurazione delle toilette in diversi contesti geografici (Matilde Cassani, Ignacio G. Galán, Ivan L. Munuera).
CONDIVISIONE: COME VIVREMO INSIEME?
Si diceva della condivisione. Qui il tema della migrazione e dei rifugiati si intreccia con la stretta attualità del “living apart together” dettato dall’emergenza sanitaria che si innesta su quella abitativa. Tema che spesso e volentieri evita di fornire facili soluzioni, specie di natura architettonica. Mancanza di pragmatismo o consapevolezza della necessità di ripensare questi e altri problemi alla base? Necessità di fare ricerca di base piuttosto che applicata? Una direzione ibrida la suggeriscono i progetti che guardano alle punte più avanzate della ricerca scientifica, da Connectome a Bit.Bio.Bot: si parte da ricerche di base afferenti altre discipline e si tenta di capire come possono interagire virtuosamente con le questioni più precipue dell’abitare, senza tuttavia gettarsi in applicazioni immediate. Chiaro che il rischio di fraintendersi è dietro l’angolo. In un attimo, ad esempio, il dialogo con l’etologia e l’ecologia si può trasformare in (involontario?) specismo, come quando con una certa leggerezza si analizzano le forme delle Bird Cage o come quando si forza l’interazione fra alveari e forme culturali umane (Beehive Architecture) rischiando (o sfiorando) la retorica.
NON È UNA MOSTRA DI ARCHITETTURA
Insomma, a metà percorso vien da pensare: in questa 17. Mostra Internazionale di Architettura c’è ben poca architettura. Architettura in senso tradizionale, però. La disciplina va aggiornata, ibridata, ripensata, d’accordo, ma ha ancora una o tante identità? Non rischia, ripensando così radicalmente le proprie fondamenta, di essere proiettata in un’esagerata astrazione, come nei progetti di Leon Marcial Arquitectos o, in ambito urbanistico, nel Micro-Urbanism di Jinhee Park – dove l’attenzione alle forme-base pare divenire esercizio di stile fine a se stesso? In altri casi questo ripensamento delle basi passa per la riscoperta di autori e soluzioni dei secoli scorsi, in primis – letteralmente, perché è il primo che s’incontra in mostra – Lloyd Kahn. In altri ancora questo “passo indietro” si focalizza sui materiali, dai più avveniristici (la fibra di vetro e carbonio di Material Culture) ai più tradizionali (l’argilla di Flocking Tejas). Spunti ed elementi che sono basilari, ma ora e adesso il problema, come si diceva poc’anzi, è di natura comunitario, ed è l’urbanistica più che l’architettura a doverci fornire, se non delle soluzioni, degli spunti di riflessione. E la mostra di Sarkis lo fa: prima timidamente, volgendosi soprattutto agli ambienti rurali e ad alcuni progetti “utopici” (la Haus of Statistik di Berlino, ad esempio); poi, man mano che il percorso della mostra prosegue, con sempre maggior risalto a (best) practice di varia fattura e provenienza: dall’edilizia non speculativa di Zurigo (Cooperative Conditions) alla rigenerazione fluviale a Cluj-Napoca in Romania, dai ritratti di tre donne e altrettanti mercati in Nigeria, Messico ed Egitto (With(in)) al rapporto fra campagna e città in India, con una interessantissima riflessione sui criteri relativi ai censimenti (Becoming Urban).
TOP & FLOP
In attesa di vedere come evolve questo nugolo di questioni nella seconda parte della mostra, allestita al Padiglione Centrale ai Giardini, non possiamo esimerci da un parzialissimo top & flop. Fra i primi, l’attualissima torre Stone Garden di Lina Gothmeha Beirut, in prossimità di quel porto che è stato teatro di un’esplosione devastante pochi mesi fa, e Living within a Market, presentazione del progetto di mercato nella periferia parigina di Benedetta Tagliabue, con poetica ispirazione a Georges Perec. Tra i progetti meno riusciti (o almeno peggio presentati), il pateticamente celebrativo La vita oltre la Terra e soprattutto Hospital of the Future, con il video da guardare “comodamente” adagiati in barelle da campo. Piuttosto di pessimo gusto.
–Marco Enrico Giacomelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati