Venezia, Padiglione Italia: la fucina dell’architettura contro il degrado socio economico
Il Padiglione Italia alla 17. Biennale di Architettura proietta il visitatore in un mondo di rimandi in cui non c’è una unica soluzione (come uno solo non è il problema) alla crisi climatica e sociale che stiamo vivendo oggi. Come può rispondere l’architettura?
Come si risponde all’indeterminabile? Trovarsi di fronte ad una pandemia, al lento ma inesorabile cambiamento climatico, può offrire davvero una forza propulsrice di innovazione e ricerca per contrastare il degrado della società attuale o siamo nuovamente di fronte ad un alibi per rimandare una necessaria rivoluzione? L’approccio del Padiglione Italia alla 17ª Biennale di Venezia, curato dall’architetto (studio Heliopolis 21), docente e ricercatore Alessandro Melis, associa pensieri, discipline, lavorando nello stesso modo delle connessioni neuronali, cogliendo gli input provenienti dal mondo esterno, dal rumore di fondo, e tramutandoli in innovazione, creatività. La sperimentazione messa in campo dal team curatoriale è transdisciplinare e mette in dialogo l’architettura con la botanica, l’agronomia, la biologia, l’arte, la medicina, le scienze sociali, la tecnologia e la storia. Il cappello, preso in prestito da Stephen Jay Gould ed Elizabeth Vrba, è l’”exaptation”, ovvero la ridefinizione del processo di selezione naturale non deterministica bensì euristica.
PADIGLIONE ITALIA: I PROGETTI
I progetti selezionati per l’esposizione rispondono ad ambiti di ricerca inerenti alla crisi ambientale, all’ambiente costruito, alla salute, alla pressione sociale, alla creatività ed all’ecologia, seguendo un decalogo (Piattaforma, Collettivo, Riduzione di emissioni, Internazionalità, Exaptation, Immersività, Impatto, Arti creative e industriali, Educazione, Serendipità creativa) che si declina in 14 sezioni tematiche che tracciano i percorsi della resilienza. Resilienza intesa non solo come capacità di reazione ad un evento traumatico, ma anche come abilità nel cogliere l’occasione del trauma per trovare nuove soluzioni. “Si dovrebbe tornare a lavorare come nello studio del Verrocchio” dice Melis, ovvero a quell’idea che la convergenza di più materie sia la base per la creazione di una fucina di idee innovative e concrete, e che il mestiere dell’architetto, così trasversale di per sé stesso, debba concedere maggiore apertura nei confronti di argomenti non direttamente collegati, almeno in apparenza, al mestiere “duro e puro”.
LA COMUNITÁ COME SIMBOLO DI RESILIENZA
Non esiste sfida più grande di quella dell’inclusione cui una comunità coesa non possa rispondere, qualsiasi siano le condizioni socio economiche in cui versa, come specifica anche l’ONU nei 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile alla base dell’Agenda 2030. Una sezione è dedicata ad un virtuosissimo esempio italiano, quello del Laboratorio Peccioli, nel borgo medievale omonimo, coordinato da Nico Panizzi, Ilaria Fruzzetti e Laura Luperi. L’occasione è quella troppo spesso mancata in Italia, il corretto smaltimento dei rifiuti per produrre energia, ma che in questo caso ha messo, letteralmente, la discarica comunale al centro di un processo di gestione consapevole degli scarti. Ciò che la comunità riciclava consapevolmente è tornata loro sotto forma di opere d’arte ed innovazioni scientifiche: installazioni d’autore e landmark di Nakagawa, Massimo Bartolini, Umberto Cavenago, Alberto Garuti, Federico de Leonardis, Vedovamazzei, Vittorio Corsini, Fortuyn/O’Brien, Vittorio Messina, Patrick Tuttofuoco, tra gli altri. Sempre qui avrà luogo il primo esperimento al mondo di robotica sociale: i robot-spazzini a domicilio o che portano la spesa a casa, oppure vanno nelle farmacie a fare acquisti per gli anziani con difficoltà deambulatorie. Sempre in anteprima viene presentato il soggetto di TAMassociati e Arup housing sociale per 10.000 nuove unità abitative e 61 edifici in Camerun. Il progetto-pilota nelle vicinanze della città di Mbankomo, a 20 km a sud di Yaoundé, ed il masterplan affronta temi cruciali quali la mobilità, la presenza delle piccole imprese e delle botteghe artigiane, l’autosufficienza alimentare, gli usi comuni, la variabilità familiare, mirando alla sostenibilità della comunità che la abiterà, in un processo evolutivo che si adegua all’imprinting culturale e ambientale del luogo.
PADIGLIONE ITALIA: L’ALLESTIMENTO
Un Padiglione ad impatto (quasi) zero. Il processo di addizione e sottrazione realizzato nel precedente allestimento, curato da Milovan Farronato nel 2019 per la 58. Esposizione Internazionale d’arte di Venezia, torna ritagliato, reinterpretato, utilizzando gli stessi materiali, permettendo all’allestimento della mostra di mantenere circa l’80% delle strutture in cartongesso, recuperando/riciclando il restante 20%. “Il Padiglione è una giungla”, recita il video di presentazione, una selva stratificata di tutti i concetti messi in campo dai diversi laboratori, le sezioni di mostra, che, come ci spiega il curatore Alessandro Melis, si è evoluta in: “una sorta di città compatta con strade, che connettono le sezioni tra loro e piazze. L’idea è quella di inserire, come dicono Christopher Alexander e Kevin Lynch, degli elementi e spazi che rendono la città tale, filtrata dalla vita. Ad ogni punto del decalogo corrisponde in mostra un’installazione, come se fossero monumenti al centro delle piazze o angoli di città. Ad esempio, al centro di ArchitecturalExaptation c’è una struttura che si chiama Spandrel, una banca del seme costituita da montanti disegnati ispirandosi alla coda dello Xenomorph di Alien. Come in uno spazio urbano, la comunicazione non parla solo la lingua dell’architettura ma usa linguaggi di contaminazione, quello del cinema, teatro, fumetti”. I materiali di questi “conceptual landmark” sono eterogenei e strettamente interconnessi con il messaggio della/e tematiche con cui dialogano. Uno degli esempi più riusciti è quello al centro di Decolonizing the built envinonment, ricerca coordinata dal collettivo RebelArchitette e Alessandro Melis, un iceberg realizzato dal giovane architetto Niccolò Casas mediante stampa 3D con plastica riciclata proveniente dagli oceani grazie all’organizzazione Parley for the Oceans
-Flavia Chiavaroli
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