Ci salveranno gli architetti. Presentata la Biennale Architettura di Venezia
Come è la Biennale Architettura di Venezia? Una mostra fiduciosa, fantasiosa e piena di speranza per un mondo migliore. Ecco come l’ha spiegata Hashim Sarkis.
Ci salveranno gli architetti. Non gli economisti, non i virologi, non gli ambientalisti, né tanto meno i politici: saranno i maestri costruttori a garantirci un futuro, verso il post pandemia e oltre. Hashim Sarkis, architetto e teorico libanese / statunitense, con sede tra Beirut e Boston, direttore della Biennale Architettura 2021 ne è decisamente convinto. Sguardo fisso in macchina, fronte corrugata quel che basta, barba curata che incornicia un volto degno della ritrattistica romana, e in più nella voce, la sicurezza di un guru, Sarkis giunge alla conferenza stampa della sua Biennale a spiegare quel titolo/ domanda “How will we live together?” che ci insegue come un viatico fin dalla mancata apertura del maggio 2020 slittata ad oggi per le ben note vicende. “Poniamo questa domanda agli architetti perché́ non siamo soddisfatti delle risposte offerte dalla politica” spiega subito nel suo scritto in cartella stampa e a voce ribadisce il concetto che se vogliamo superare le grandi criticità del mondo (dalle diseguaglianze alla crisi climatica, dalle malattie alle migrazioni), è solo all’architettura che ci dobbiamo rivolgere: sarà lei a garantirci un livellamento, un punto di partenza uguale per tutti, un’orizzontalità nel paesaggio che possa essere attraversata dai flussi energetici. Non più lotte sindacali, non più rivendicazioni di classe, il nuovo che ci aspetta è la condivisione degli spazi comuni come paradigma di un’equa società a venire.
I MESSAGGI RADICALI DI SARKIS
E chi, tra i giornalisti, si aspetta foto delle installazioni all’Arsenale e ai Giardini, qualche progetto o perlomeno un piccolo rendering tanto per dare forma e volto alla rivoluzione, viene da Sarkis liquidato fin dall’inizio con la frase che queste cose si troveranno in catalogo. Lui non si perde in dettagli, non cita neanche un nome tra i 112 partecipanti arrivati faticosamente da ben 46 paesi tra i quali molti d’Africa e America Latina falcidiati dal Covid. Non fa neanche un cenno a Lina Bo Bardi, Leone d’oro speciale: vera e meravigliosa rivoluzionaria che del “vivere insieme” fece una pratica professionale e privata, pioniera di fede ecologica ben prima che l’Occidente ne parlasse. Sarkis ha messaggi più radicali da mandare. Abbattere, ad esempio, quel che resta del Novecento con le sue mura, le belle case, i centri storici contro le periferie, la gerarchia social- immobiliare, la divisione città /campagna. Sostituire alla formula “contratto sociale” superata dai venti e dagli eventi di questo nuovo e fluido secolo, quella di un “contratto spaziale” che determina “le libertà perdute o acquisite dalle persone attraverso le interazioni spaziale”. Riflettere su quel che significa “To live together ” in una società che si fa carico in egual misura di uomini, animali, piante, acque, aria che si dividono lo stesso piccolo pianeta.
UNA NUOVA GENERAZIONE DI ARCHITETTI
Affidarsi per tanto compito “ad una nuova generazione di architetti, generosi sintetizzatori di diverse forme di competenza e di espressione che riusciranno ad abbattere i muri del secolo breve, far convivere pacificamente le genti, a economizzare le risorse, rispettare piante animali del nostro pianeta”. E mentre il presidente Roberto Cicutto ascolta e annuisce, travolto dal trascinante eloquio sul futuro che ci appare paradossalmente più vicino all’ enfasi di un leader del primo Novecento che al freddo ragionare di un professionista dell’era digitale, Sarkis affronta un tema concreto che incardina gran parte della sua Biennale: la costruzione e ricostruzione di spazi comuni in aree impreviste che a volte attraversiamo distrattamente nel nostro vivere quotidiano. È la sezione che lui chiama inquadramento, dove ci parla di aria che circonda gli edifici e che va riempita di vita e di lavoro comune, perché “un edificio possa ispirare e non imporsi”. Non è chiarissimo neanche questo, ma porta il pensiero ad immaginare condomini felici su terrazze trasformate in giardini, bambini che giocano in cortili riscattati al degrado, sale di lettura nelle hall dei palazzi e servizi comuni, flessibili e condivisi.
UNA BIENNALE COME PONTE
Non a caso una delle tante parole chiavi che Sarkis ci tiene a segnalare è “il ponte”, perché piena di progetti di ponti è la sua Biennale: ponti costruiti per unire e non solo come vie di scorrimento; ponti pieni di verde, fiori, alberi e piste ciclabili; ponti panoramici come luoghi sopraelevati e privilegiati per avere un diverso punto di vista sul territorio, sulla vita e sul mondo. “Non possiamo più̀ aspettare che i politici propongano un percorso verso un futuro migliore. Mentre la politica continua a dividere e isolare, attraverso l’architettura possiamo offrire modi alternativi di vivere insieme”, scrive nel suo testo il nostro anarchico e utopico architetto. “Come artisti, sfidiamo l’inazione che deriva dall’incertezza per chiederci: ‘E se?’ E come costruttori, attingiamo dal nostro infinito pozzo di ottimismo per fare ciò che sappiamo fare meglio”. Ed è così che Hashim Sarkis conclude il suo manifesto futurista invitando i colleghi all’azione e noi a visitare una Biennale dove non otterremo risposta a tutte le domande che il titolo/domanda “How will we live together?” si trascina dietro. Ma se questa è la mission indicata dal suo impetuoso direttore saremo probabilmente accolti e consolati da una mostra fiduciosa, fantasiosa e piena di speranza per un mondo migliore.
–Alessandra Mammì
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