Venezia. Il Libano alla prova della Biennale Architettura 2021
Una conversazione con gli architetti Jad Tabet e Hala Wardé, rispettivamente commissario e curatrice del Padiglione Libano alla 17. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, al via il 22 maggio 2021. Il Paese sarà presente con il progetto “A roof for Silence”.
Nonostante i non ancora risolti problemi di stabilità interna (che si trascinano dalla guerra civile del 1975-90), aggravati dalla questione dei profughi siriani, e le sofferenze sociali causate dal disastro portuale del 4 agosto 2020, il Libano cerca di risollevarsi anche attraverso la cultura.
Jad Tabet e Hala Wardé illustrano la presenza del Paese alla Biennale Architettura 2021 e analizzano la situazione locale. Anche se la questione siriana e le divisioni interne non sono ancora un argomento di cui i libanesi parlano volentieri, How will we live together?, il tema della Biennale, sembrerebbe molto adatto a una riflessione su questi argomenti.
INTERVISTA A HALA WARDÉ, CURATRICE DEL PADIGLIONE LIBANO
Come ha concepito A Roof for Silence, il progetto del Padiglione Libano 2021?
In A Roof for Silence ho scelto di parlare di cultura piuttosto che di politica, per mostrare la bellezza che a volte riesce a emergere. Dopo la tragica esplosione che ha distrutto gran parte della città e ucciso molte persone, la necessità di luoghi di silenzio è diventata essenziale. Il vuoto, come il silenzio, esiste solo per ciò che lo circonda e lo contiene, nello specifico l’architettura, come la musica. La questione del vuoto è molto importante quando si parla di tessuto urbano. Mi interessa l’atto di “densificazione” attraverso il vuoto. Ho lavorato molto su questa idea nel progetto per il Beirut Museum of Art. Ho iniziato a mettere in discussione l’intero spazio e ho proposto di installare un grande giardino al centro e riempire il perimetro. Questo non è soltanto un atto di pubblica utilità, che dona un nuovo paesaggio alla città, ma è anche un modo per aumentare il valore dell’ambiente circostante. È un modello sia sociale che economico. Il padiglione coglie queste domande e le traduce in un dialogo con altre discipline e ambiti artistici.
Ha parlato di silenzio e vuoto. Come tradurli, in pratica, in una buona architettura?
Il recente sviluppo di Beirut, dal dopoguerra in poi, ha distrutto la maggior parte dei giardini, insieme a dimore storiche di grande valore, per lasciare il posto a palazzi ordinari, che hanno deturpato il paesaggio cittadino. Abbiamo assistito, durante la pandemia, alla sofferenza delle persone per la mancanza di spazio, soprattutto in città. Beirut ha anche raggiunto una saturazione di rumore, di traffico, di densità di costruzioni, che ha richiesto nuovi spazi “fuori dal tempo”. C’è una reale necessità di luoghi in cui poter respirare, in risposta a questa sovra-densificazione, come la necessità del silenzio quando c’è troppo rumore. Gli architetti hanno bisogno di utilizzare quegli spazi, sulla scala del quartiere, ma anche in quella domestica, valutando attentamente le strutture per organizzarli.
NATURA E PAESAGGIO IN LIBANO
Quanto sono importanti la natura e il paesaggio nella sua pratica?
Il contesto è l’essenza dell’architettura. La natura circostante o la situazione urbana e il sito stesso in cui un edificio sorgerà: tutto è legato al contesto. L’architettura deve dialogare con la natura, sempre; con le nuvole, il vento, l’acqua e soprattutto con la luce. Mi piace paragonare l’architettura alla musica: bisogna suonare i diversi strumenti, con rigorose regole di composizione, formando un’armonia globale. La luce è lo strumento chiave per creare un dialogo con il contesto. Consente variazioni, poiché è molto specifico a seconda della posizione. Gioca con la natura attraverso l’architettura, creando ombre, trasparenze, riflessi, per provocare esperienze sensibili. Il silenzio fa parte della musica, come l’ombra della luce.
Come si traduce questo pensiero nel padiglione a Venezia?
Metto a confronto i tronchi degli ulivi millenari che vivono nell’entroterra delle montagne libanesi con gli spazi architettonici. Una lezione di architettura attraverso la natura, non solo tramite la forma, che cattura la profondità del tempo, ma anche attraverso la materialità, i colori cangianti, il movimento della luce.
Quali sono i “punti chiave” della sua pratica architettonica?
Mettere in discussione le idee, avvicinarsi il più possibile all’essenza dell’argomento. Appartenere a un luogo, avere un senso nello spazio e nel tempo. Trovare il vocabolario giusto a seconda della situazione: misura e ritmo. Attraversare diverse discipline: letteratura, poesia, arte, scultura, musica. Assemblare tutti i parametri per la migliore riuscita: esperti e architetti. Utilizzare diversi strumenti per esplorare le idee: empirismo, disegni, modelli digitali. Lasciare aperta l’immaginazione.
INTERVISTA A JAD TABET, COMMISSARIO DEL PADIGLIONE LIBANO
Qual è la situazione a Beirut, non solo dopo il disastro del 4 agosto 2020, ma anche in conseguenza del delicato momento politico?
L’esplosione ha segnato una svolta nella storia della città. L’area urbana più colpita, situata a est del centro, copre quasi 3 chilometri quadrati e comprende le zone industriali di entrambi i quartieri popolari. Questi quartieri hanno vissuto in relativa stabilità fino alla fine del secolo scorso, poiché la moderna Beirut si è sviluppata a ovest durante gli Anni Cinquanta e Sessanta. Tuttavia, la febbre immobiliare che ha iniziato a diffondersi dalla fine degli Anni Novanta ha portato a una graduale gentrificazione che ha trasformato il carattere di diverse strade, prima nel settore Gemmayzeh e poi in quello di Mar Mikhaël. Nuovi caffè, ristoranti e bar alla moda hanno accolto una gioventù cosmopolita, i piani terra sono stati trasformati in gallerie d’arte e studi di artisti, e molte attività culturali e creative hanno cambiato il volto del quartiere. Una parte significativa del mix sociale è rimasta presente, grazie alla legge che regola i vecchi affitti, che ha permesso agli abitanti con redditi modesti di mantenere le loro case. A essere minacciati dalle ricadute dell’esplosione del 4 agosto sono proprio questa diversità sociale e il vibrante dinamismo culturale.
Come si potrebbe intervenire?
Nessun modello di ricostruzione “classico” può essere trasposto nell’attuale situazione libanese, che combina una serie di handicap. In Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la ricostruzione fu avviata e guidata dagli Stati. Questo modello è ovviamente impensabile oggi in Libano, dove le istituzioni pubbliche sono deboli e soffrono di corruzione. È vero che negli Anni Novanta il neoliberismo economico ha permesso operazioni di rigenerazione urbana sul modello di città corporative come i Docklands di Londra o la ricostruzione del Beirut Central District. Anche questo modello non è però più possibile a causa della grave crisi economica e finanziaria che il Libano sta attraversando dall’autunno 2019.
IL RUOLO DELL’ARCHITETTURA IN LIBANO
Alla luce di questo quadro, quale può essere il ruolo degli architetti e dell’architettura in Libano, per una ricostruzione materiale e morale della città?
Mi ha profondamente commosso l’immenso afflusso di giovani volontari che, fin dal giorno dopo l’esplosione, sono venuti a pulire le strade, collaborare ai restauri, aiutare gli abitanti dei quartieri più colpiti. Si sta progressivamente implementando un modello ibrido che associa società civile, ONG, iniziative private, agenzie internazionali e istituzioni pubbliche. Il progetto che stiamo cercando di realizzare è al tempo stesso modesto e ambizioso. Modesto, perché fatto di tentativi ed errori, di adattamenti alla realtà logistica, al contesto generale e a risorse limitate, ma ha un’ambizione formidabile: quella di valorizzare le opportunità offerte dalla democrazia libanese con i suoi punti di forza e quelli più deboli, immaginare uno spazio che consenta alle persone, indipendentemente dalla loro condizione economica, sesso, età, etnia o religione, di partecipare a tutte le opportunità offerte dalla città.
Di cosa si tratta?
L’Ordine degli Ingegneri e Architetti di Beirut, in collaborazione con le scuole di architettura del Libano, ha lanciato l’iniziativa Beirut Urban Declaration, che chiede un approccio olistico alla ristrutturazione e alla rivitalizzazione dei quartieri colpiti dall’esplosione. Ciò va oltre la semplice riparazione degli edifici danneggiati. Implica il ripensamento degli spazi pubblici per essere più inclusivi, resilienti e sostenibili, confrontando la gamma e la varietà di pratiche associate all’uso sociale dello spazio, collegando tra loro i vari quartieri deturpati da precedenti sfortunati interventi urbani e promuovendo progetti sperimentali di urbanistica partecipativa.
Spostando l’attenzione sul paesaggio libanese, antico, quasi “biblico”, ci sono programmi specifici per preservare questo patrimonio, che potrebbe essere una grande risorsa per il Paese?
L’immaginario del Mediterraneo è da sempre legato al mare. È un territorio che pullula di rotte marittime e terrestri, che collegano città portuali ai grandi centri dell’interno. Rispetto all’orizzonte aperto degli scenari oceanici nell’Europa del Nord, i paesaggi mediterranei sembrano compressi, con un’eccessiva pressione demografica concentrata nelle aree costiere. È il caso tipico della costa libanese, densamente occupata dall’80% della popolazione, e lungo la quale si trovano le principali città portuali: Beirut, Tripoli, Saida e Tiro. La costa libanese è stata oggetto di enormi pressioni negli ultimi quarant’anni e, quindi, del paesaggio “biblico” che un tempo fioriva sulla sponda orientale del Mar Mediterraneo è rimasto ben poco. Tuttavia, se rinnoviamo il punto di vista, può nascere una nuova prospettiva, a partire non dal mare ma dal suo entroterra.
In che modo?
L’apparente linearità della costa libanese è frammentata da profonde valli prodotte dalle fratture e faglie del periodo terziario. Queste valli conducono all’entroterra, frammentato in un mosaico di paesaggi, dove convivono utilizzi diversi del suolo in un’area geografica limitata. Questo ecosistema è fragile e i processi indotti dall’uomo – che includono l’abbandono delle pratiche tradizionali, una cattiva gestione del suolo e massicci cambiamenti nel suo uso, progetti infrastrutturali intrusivi e un’urbanizzazione dilagante – amplificano ulteriormente la sua vulnerabilità ai cambiamenti climatici. Un ecosistema che rappresenta un tesoro e custodisce storia e memoria comuni dovrebbe essere preservato. Mentre solleva la questione del nostro rapporto con il nostro patrimonio, offre l’opportunità di immaginare un approccio contemporaneo che dia nuova vita a spazi che hanno una forte carica poetica e il potere di animare la nostra immaginazione.
‒ Niccolò Lucarelli
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