La grande occasione mancata del Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2021
Caos espositivo, illeggibilità, pochissimo rispetto per lo spettatore. Non basta una buona ricerca per fare una buona mostra. E infatti la ricerca qui è ottima ma la mostra "Comunità resilienti" del Padiglione Italia non può funzionare
Chiunque sia stato almeno una volta alla Biennale di Venezia nell’ultimo quindicennio sa bene che il Padiglione Italiano si trova alla fine dell’estenuante percorso dell’Arsenale. Questione non di poco conto e che sarebbe bene non trascurare: significa che chi arriva si porta dietro un vissuto espositivo di almeno due ore e, necessariamente, è provato dalla fatica e portato a fare raffronti e paragoni. Anche inconsci.
LE DIFFERENZE TRA MOSTRA INTERNAZIONALE E PADIGLIONE ITALIANO
Quest’anno il percorso dell’Arsenale nell’ambito della mostra curata dal libanese Hashim Sarkis è impeccabile. I temi sono profondi (nel tentativo di rispondere ad una domanda necessariamente generica: Come convivremo?), i progetti sono spesso delle scoperte, ma soprattutto il livello di allestimento – in un’area della Biennale che sovente sconta una approssimazione dovuta ad ambienti soverchianti e complicati – è elevato. Poi si entra nel Padiglione Italia e l’ecosistema in cui ci si trova calati cambia radicalmente. La scelta ‘sostenibile’ di mantenere le ridondanti strutture in cartongesso realizzate per la Biennale d’Arte del 2019 crea una certa congestione che si poteva disinnescare facendo ricorso alla grafica e ad una sapiente scelta delle tonalità. Si è optato invece per una livrea che appare superata e per un insistente colore nero. Il Padiglione è costituito, oltre che da video (con audio indistinguibile purtroppo) e da alcune installazioni, da una quantità smisurata di fogli e pannelli adesivi affissi alle pareti riportanti foto, disegni e tanti, tanti lunghi testi. I decaloghi proposti dal team curatoriale per spiegare il padiglione ai visitatori sono ben due: un decalogo del padiglione e un decalogo dell’allestimento del padiglione. Ventalogo! Un accanimento che sta tutto nella testa di chi l’ha concepito, ma che difficilmente può viene incontro all’intenzione di comprendere qualcosa da parte dei visitatori.
IL TEMA DEL PADIGLIONE ITALIA: COMUNITA’ RESILIENTI
Ma almeno tutta questa grande quantità di testo riporta riflessioni illuminanti? Si tratta di papier imperdibili e redatti in maniera coinvolgente? In realtà non di rado ci si trova davanti addirittura a refusi grammaticali e sintattici. Appare evidente che i testi non sono stati riletti, non c’è stato un idoneo passaggio di editing. Sembra un dettaglio? Non lo è! Ma c’è di peggio: anche se i testi fossero irrinunciabili – e non lo sono – sarebbe comunque complicatissimo leggerli. Con ogni probabilità non si è pensato a realizzare delle prove di stampa e molte didascalie sono sgranate, stampate in maniera approssimativa, davvero illeggibili.
LE COMUNITÀ SONO RESILIENTI MA PURE IRRINTRACCIABILI
Il risultato è che la ricerca fatta a monte, la selezione di progetti di resilienza, la presentazione di storie e di comunità è largamente infruibile. Non tutti i visitatori sono disposti a inscenare una caccia al tesoro tra le iniziative partecipanti e tra le varie sezioni del padiglione. E così le cose sfuggono. “Sei stato al Padiglione Italia? Hai trovato il nostro progetto?”. Eh no che non l’ho trovato, cara comunità resiliente che mi chiedi un parere. In quella polverizzazione nera, pesante, di difficile ergonomia nessuno trova nulla. Anche i progetti cui non è stata lasciata una piccola porzione di parete, ma che sono stati maggiormente approfonditi, ne escono con le ossa rotte. Realtà di grandioso interesse come tutto ciò che sulla sostenibilità accade a Peccioli o come il magico Progetto Borca sono offerti al visitatore in display paragonabili a quelli delle mostre di fine anno alle scuole superiori. Una occasione persa per presentare in maniera adeguata alcune belle storie italiane: ci domandiamo quanti saranno alla fine i visitatori che si innamoreranno dei progetti, si interesseranno, approfondiranno, decideranno di pianificare un viaggio per scoprire ciò che hanno imparato a Venezia. Coinvolgere i visitatori nell’ambito di una cosa che si chiami “mostra” non è improvvisabile ed è evidente che qualcosa non ha funzionato. Tutto poi è ancor meno scusabile se si pensa che a causa dell’emergenza sanitaria si è avuto ben un anno in più di tempo per lavorare sull’accuratezza del prodotto. Ma sarebbe troppo facile e ingiusto dare la croce addosso al commissario Alessandro Melis. Melis sa fare alla grande il ricercatore – e il livello di ricerca del Padiglione è serio – ma ovviamente non sa allestir mostre: non è quello il suo mestiere. Evidentemente non sanno allestirle neppure i curatori di cui si è circondato. Forse il Ministero della Cultura dovrebbe decidere una volta per tutte che – esattamente come lo stesso Ministero fa per le Biennali d’arte – anche per le Biennali d’architettura il commissario del padiglione deve essere un curatore, non un architetto, uno studioso, un professore. È un nodo che abbiamo indicato più volte, ma forse stavolta è venuto al pettine.
PER FARE UN PADIGLIONE GRANDE CI VUOLE UN BUDGET GRANDE
C’è poi un tema riguardante le risorse economiche. Il Padiglione Italia è enorme, sconfinato, richiede una quantità di denaro considerevole per essere approcciato in maniera professionale, deve essere seguito da team numerosi, abbisogna di investimenti veri che non sono quelli messi a disposizione dalla dotazione di Stato. E allora la ricerca dei sostegni finanziari e il fundraising devono articolarsi in maniera meno approssimativa di così. Con quei pochi e piccoli main sponsor di cui era dotato forse, Melis non poteva far meglio di quel che ha fatto. In caso contrario, in presenza di pochi soldi, si potrebbe anche optare per una riduzione degli eccessivi metri quadri del Padiglione dimezzandolo. Meglio una esposizione più piccola, ma che lasci qualcosa ai visitatori, li convinca su una chiave di lettura, insegni loro una roba che non sapevano, permetta a qualcuno di scoprire ciò che non avrebbe mai scoperto. Insomma, il senso stesso di una mostra.
-Massimiliano Tonelli
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