Dialoghi di architettura. Intervista a Marcello Guido
“Si vive in una condizione di spaesamento, nessuno indica prospettive nuove, migliaia di norme privilegiano la mediocrità, certificata dalle stesse norme”, osserva l’architetto calabrese Marcello Guido commentando lo stato dell’architettura contemporanea in Italia. Dopo Franco Pedacchia, prosegue con lui il ciclo di conversazioni curato da Carlo De Cristofaro
“Il viaggiatore romantico intraprende finalmente il suo viaggio doloroso tra le rovine della storia e le rovine generano nuove metamorfosi, specchi della coscienza, interrogazioni taglienti […], lucide speculazioni per risalire il labirinto, riaggrapparsi al tempo, ridare senso alla vertigine, ribaltare il responso”. Con questi versi Antonio Cuono ben sintetizza il modus operandi di Marcello Guido (Acri, 1953), alla base delle cui opere scorgiamo un’analisi storica e un rifiuto dell’ortogonalità di matrice zeviana, ma anche un’introspettiva riflessione sul linguaggio architettonico nel tentativo di suggerirne una personale riscrittura.
L’ARCHITETTURA SECONDO MARCELLO GUIDO
Le architetture di Guido, di cui è celeberrimo l’intervento su Piazza Toscano a Cosenza, con il loro virtuosismo geometrico si caratterizzano, infatti, per la dissoluzione della forma lineare, della quale non è possibile individuare “formule risolutive”, (così come) “[…] non vi sono centri, né punti o piani privilegiati […]” (Surfing Complexity. The work of Marcello Guido, 2011). Analizzandole infatti vi scorgiamo riferimenti ai grafismi di Kandinsky, ma anche al Neoplasticismo e alle giustapposizioni dei Merzbau di Schwitters. L’opera di Guido è criticamente inserita nella complessa compagine del Decostruttivismo, in cui la decostruzione, come ricordato da Franco Pedacchia andrebbe intesa in un’accezione di “interrogazione” sul come rigenerare i contesti in cui si interviene attraverso opere puntuali e di “rottura”, che riscrivono il dialogo con un paesaggio a tratti degradato o spesso in preda all’abbandono.
Su Guido esiste una ricca bibliografia; malgrado ciò sussiste un certo scetticismo da parte di una critica architettonica, che l’ha volutamente lasciato ai margini, sebbene possa essere considerato l’erede di Bruno Zevi, come sottolinea Luigi Prestinenza Puglisi nel suo approfondimento. Ecco, quindi, suffragata la necessità di un’intervista all’autore per ascoltarne il suo fare architettonico con uno sguardo rivolto verso il futuro.
DA BRUNO ZEVI ALLE AVANGUARDIE: PAROLA A MARCELLO GUIDO
In che maniera è stato significativo per lei l’incontro con Bruno Zevi? Quali insegnamenti applica ancora nella professione?
Riconosco a Zevi il più importante ruolo nel rapporto tra allievo e maestro: quello di insegnare le nozioni essenziali della costruzione dello spazio con l’ausilio della storia. Il suo insegnamento è stato quello di operare all’interno della storia, renderla corpo vivo e strumento di lavoro per l’architetto. Il concetto principale può essere sintetizzato in queste poche parole: un nuovo modo di indagare la storia che diventa strumento per recuperare dal passato le analogie linguistiche di una modernità trasversale rispetto alle stesse epoche storiche. La sua lezione è stata quella di far capire che il concetto di modernità non è legato propriamente alle contingenze temporali a noi più vicine, ma attraversa cinque millenni di storia dell’architettura: capire queste trasversalità significa entrare nella modernità. Questo è il suo grande lascito, un lascito aperto. Si può parlare con Zevi ancora oggi e si potrà studiare insieme a lui magari tra un secolo.
Sulla scorta delle celebrazioni per il centenario della nascita di Zevi, secondo lei esistono ancora gli architetti zeviani?
Penso proprio di sì, ma non li chiamerei architetti zeviani. Sono gli architetti che lavorano all’interno della modernità, a cui ho accennato precedentemente, e che trasportano nelle proprie esperienze progettuali un processo mentale piuttosto che segni fisici.
Nei suoi riferimenti progettuali quale contributo ha il rapporto con le avanguardie?
Sono rimasto sempre affascinato dal movimento Dada e dal fatto che il suo programma non prevedeva regole: “Dada non significa nulla. Dada è un prodotto della bocca, uno spirito e un atteggiamento accomunante intellettuali di diversa estrazione nei confronti del fare e del pensare l’arte”, scrisse Tristan Tzara. Questa frase sintetizza tutto! Ma vi sono anche altre avanguardie, una su tutte l’Espressionismo della prima età cristiana: dopo il perfezionismo esasperato dell’età imperiale assistiamo a un annullamento di tutti i codici. Le avanguardie ritengo siano i sognatori della storia umana, quelli che ipotizzano cambiamenti, che sperimentano, che indicano nuove strade e per tale motivo, nella maggior parte dei casi, non immediatamente accettati perché sono un passo più avanti rispetto agli altri. L’architettura, rispetto alle altre arti, è sempre stata un passo indietro, però in questi ultimi decenni ha colmato un ritardo che perdurava da secoli.
I PROGETTI DI MARCELLO GUIDO
Lei è un professionista un po’ fuori dagli schemi. In che relazione è con gli altri progettisti che hanno aderito al Decostruttivismo?
In ambito storico-critico vi è stata da sempre la necessità di razionalizzare il fare artistico come se ognuno di noi dovesse appartenere a una certa famiglia, essere inquadrato in schemi rigidi e invalicabili. Il Decostruttivismo non è un modo di rappresentare lo spazio, ma piuttosto un tentativo di decostruire i linguaggi. E questa è una operazione molto più complessa perché non riguarda affatto il disegno, ma piuttosto una impostazione mentale.
Vi sono enormi differenze tra Gehry ed Eisenman, tra Tschumi e Coop Himmelb(l)au, eppure sono tutti etichettati come decostruttivisti. Se Hans Scharoun fosse ancora vivo, molti gli avrebbero assegnato l’etichetta di decostruttivista, lo stesso vale per Antoni Gaudí, ritenendo che la Cripta della Colonia Güell sia uno dei testi basilari della decostruzione dei linguaggi. Devo però dire che il mio maestro è stato Hans Scharoun.
Può delineare il clima fecondo che ha portato a concepire e realizzare piazza Toscano a Cosenza?
Piazza Toscano è un’area archeologica fatta di stratificazioni storiche, è nel cuore del centro storico e quindi sono visibili le varie epoche: la citta rinascimentale, la città medievale, la città romana. Rappresenta in un certo modo una ferita (come quando un chirurgo sul tavolo operatorio apre il corpo e osserva gli organi interni); si possono osservare ferite pregresse ed eventi traumatici, terremoti, guerre, stratificazioni… Si osserva un tessuto scomposto e frastagliato fatto di episodi e piccole parti mai correlate tra loro e il progetto realizzato ne ha assecondato lo schema.
In quale modo venne accolta quest’opera?
Il progetto ha suscitato in egual misura scandalo e consensi; probabilmente se avessi proposto delle semplici coperture a forma di baracca, magari con coppi di cotto (una sorta di presepe), commettendo a mio avviso una violenza inaudita rispetto al tessuto storico, sarebbe passato tutto nell’indifferenza generale. Ciò che ha fatto discutere è il segno moderno nel contesto storico, ma qui si aprirebbe una discussione che va ben oltre gli spazi di una semplice intervista. Devo però dire che oggi l’area è completamente “ruderizzata”. L’intervento ha più di venti anni di vita e le operazioni di manutenzione ordinaria sono state rarissime; l’erba è cresciuta indisturbata per anni nell’area archeologica e spesso ho visto accumularsi buste di spazzatura e montagne di rifiuti negli angoli della piazza! Tutto ciò aprirebbe una lunga, ulteriore discussione.
I contesti in cui è intervenuto con le sue opere sono stati effettivamente “rigenerati”? Reputa valide, ancora oggi, le scelte progettuali da lei apportate?
Alcuni interventi hanno realmente rigenerato le aree per cui erano stati pensati. Lo hanno fatto stimolando il dibattito e aprendo i luoghi a flussi di pubblico inaspettati. Ma soprattutto hanno avuto un impatto perché si sono relazionati alla scala della città. Ho realizzato un intervento di rigenerazione urbana in un’area periferica di Cosenza. La città, come un essere vivente, cambia costantemente; alcune attività che si svolgono in un certo luogo hanno un ciclo di vita. Quando le potenzialità del luogo e la funzioni dell’edificio si esauriscono, il ciclo si completa e le attività si muovono. La mia proposta è stata quella di sostituire il vecchio capannone con un segno verticale. Abbiamo realizzato una torre, caratterizzando il luogo e l’intero skyline della città. Avremmo potuto realizzare una normale palazzina di otto piani, ma avremmo privato la città non solo di un segno riconoscibile ma anche di una nuova piazza aperta al pubblico.
L’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA IN ITALIA
La sua ricerca attualmente su cosa si sta concentrando? E dove?
Ho in corso alcuni progetti di recupero di centri storici nella regione Calabria, alcuni sono borghi abbandonati, altri in fase di forte decrescita; è un tema che mi interessa molto.
Verso quale direzione sta volgendo l’architettura italiana?
A mio avviso l’architettura in Italia ha avuto il suo periodo più fecondo dal dopoguerra fino agli Anni Settanta del secolo scorso, con punte di eccellenza; poi la parentesi del post-modernismo ha bloccato la ricerca e la gran parte della professione e dell’accademia italiana si è schierata intorno a quelle sciagurate ipotesi. Per una manciata di anni l’Italia ne è stata anche epicentro internazionale, esauritosi però rapidamente con l’affermarsi del Decostruttivismo. Oggi si vive in una condizione di spaesamento, nessuno indica prospettive nuove, migliaia di norme privilegiano la mediocrità, certificata dalle stesse norme. Anche le facoltà di architettura, che dovrebbero essere i principali centri di produzione culturale, sembrano essersi livellate tutte verso il basso, con sedi e proposte pedagogiche che si equivalgono. Mentre nel dopoguerra la committenza pubblica ha contribuito a realizzare parte della storia dell’architettura italiana, oggi il progetto di architettura è stato equiparato alla fornitura di un bene di consumo, come se l’architetto fosse un semplice fornitore di elettrodomestici o bibite. Alla professione oggi si affacciano in pochi, tanto che i posti che rimangono liberi nei concorsi di accesso alle scuole di architettura testimoniano lo stato di fatto.
Quali consigli si sentirebbe di dare a chi si sta avvicinando a questa professione?
A un ragazzo oggi consiglierei di andare a studiare all’estero.
‒ Carlo De Cristofaro
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