La Goccia di Milano, il cuore post industriale della Bovisa
Nel quartiere milanese di Bovisa resistono gli scheletri di una vita industriale che non esiste più. Una studentessa del corso di Critical Writing della NABA di Milano lo racconta in prima persona
Seguendo i percorsi tracciati dagli avventurieri dell’archeologia industriale, si è colti da una serie di rumori perseveranti: dal sottosuolo, uno strisciare larvale di animaletti, e, sopra la testa, quelli che sembrano essere dei droni e che i locali attribuiscono alle perlustrazioni invasive del vicino Politecnico. Fazzoletto dopo fazzoletto rosso, ci si imbatte in palazzine e barili nucleari, palloni da calcio atterrati metereoticamente sul fogliame, assemblee di specie infestanti e percorsi ipogei di cui è ignoto l’inizio e la fine. Questa lacrima incastonata tra Villapizzone e Bovisa, prende il nome di “La Goccia” e, prima di diventare un’insegna all’autopoiesi industriale, ha ospitato la società del gas che per quasi settant’anni ha illuminato Milano.
Gli abitanti temporanei del luogo coesistono pacificamente: artisti, cruiser, passeggiatori di cani, alcolisti ed ecologisti camminano con la loro cinepresa immaginaria stando attenti a non inquadrarsi l’un l’altro.
Nel percorso atemporale che porta dal parco alla zona Nord del complesso, si vive di anticipazioni, attese e cariche cinematiche. Il camminare, come unico gesto consentito nello spazio, genera una nuova cartografia del significato e risemantizza, in un cantiere continuo del senso, l’ex complesso industriale.
Sono, infatti, gli avventurieri della Goccia a connotare fisicamente e simbolicamente lo spazio con celebrazioni spontanee, pompini nei cespugli, fughe notturne su monopattini alipedi e occulti rituali di droga. Pratiche di appropriazione ontologicamente diverse, che però sono accomunate da un fattore: non sono perenni. La Goccia nega la Santa Funzionalità dell’architettura, per venerare lo spettro del temporaneo e dell’effimero.
Questo le dà degli antenati, un albero genealogico di ecologie queer che, brevemente, mentre stiamo attenti a non farci pizzicare dalle bocche di capannoni dispersi, cercheremo di definire.
CIMITERI E MEMORIE POST INDUSTRIALI
Il londinese Matthew Gandy conia il termine queer ecology in relazione ad Abney Park, un cimitero vittoriano del XIX secolo. Abbandonato a se stesso dalla municipalità di Londra, si è pian piano trasformato in un’architettura polifunzionale e ha ospitato incontri tra scambisti, cruising, wave post-punk, mostre e avanguardie artistiche.
Il cimitero diventa per l’autore un’esemplificazione di quello che il queer vuole essere nell’uso aperto tra corpi e territori: una dimensione spaziale non normata, dove la mancanza di disciplinamento interno e l’invisibilità secolare hanno aperto a nuovi ruoli sociali e culturali. Seguendo le eterotopie foucaultiane, identifica in questi luoghi non degli spazi per la differenza, ma delle inversioni radicali di ciò che esiste.
La stessa decentralità dei cimiteri londinesi si potrebbe teorizzare per le fabbriche di Milano, dopo lo spostamento nell’hinterland e il conseguente abbandono. Questo rende le costellazioni industriali parzialmente separate in termini ecologici, culturali e politici dal resto della città. Per dirla con Anzaldua, le ex-fabbriche diventano frontiere, spazi trans-geografici, capaci di assumere condizioni, ruoli e stati differenti, così come i corpi che le abitano.
L’IDENTITÀ DELLA GOCCIA
La cisterna è una delle poche zone asfaltate de “La Goccia”. Qui, nessuna mano di spine può afferrarci dal sottosuolo. La torretta, ancora raggiungibile forzando un paio di porte e superando il lascito di chi l’ha abitata per decenni, riflette la luce anestetica dell’intero quartiere su quello che sembra essere l’ex logo della Union de Gaz, che prese possesso dello stabilimento nel 1908. Da allora fino al transennamento del ‘94 il complesso, come i suoi barili per la fissione nucleare, è rotolato di società in società: Smeriglio, Montedison e altre che hanno fatto l’epopea del quartiere operaio di Bovisa, con le sue osterie, le case di ringhiera, i bocciodromi e le manifestazioni che dalle fabbriche inondarono il Duomo.
Il Signor L. vive da tempo indeterminatissimo nell’ ex-cisterna, accompagnato da assembramenti di pipistrelli, uccelli, ragni e altre creature da soffitto. È anche l’artefice dei pochi segnali di vita che illuminano il Parco: i proto-stendini che tagliano il perimetro della torretta, le corde che reggono le vetrate industriali e la casetta sull’albero per il camping di qualche sfortunato. Luigi è anche un corpo aperto, sensorio, che ha dovuto modificare il suo schema in base ai cambiamenti del luogo: quando l’elettricità e l’acqua hanno smesso di arrivare o quando gli avventurieri hanno cominciato a disturbare le sue derive quotidiane. È diventato così un pioniere di situazioni spaziali non codificate, praticando la memoria della libertà, dell’esplorazione e del nomadismo umano e urbano.
È Luigi ad accompagnarmi, prima, verso una galleria a cielo aperto, dove sembra che le opere si siano disciolte al sole. Poi, in una cattedrale senza religione se non quella di un Cristo nero disteso, che non è più uno ma molti uomini, trasportati dalla corrente dei mattoncini rossi. Un’architettura del genere rappresenta per la prima volta tutti.
GASOMETRI E VOYEURISMO
L’ultima tappa è a Nord, dove dal terreno spuntano, come crostacei sventrati, i due grandi gasometri. Qui, coppie di amici si tengono per mano per salire le scalette che portano all’apice dei due colossi, circumnavigarne il perimetro e osservare quello che di misterioso potrebbe accadere negli 850mila metri quadrati dello stabilimento industriale.
Gilles Deleuze nel terzo capitolo di Logica della Sensazione, ripercorre le ribellioni ultra-corporee delle figure di Francis Bacon. Da circoscritti nel piano spaziale, i suoi soggetti cominciano pian piano a espandersi in fughe di ombre ed emersioni di forze, fino a che due corpi non cominciano a sembrare uno solo, in uno slancio di cooperativo atletismo. All’apice dei gasometri avviene lo stesso confondersi tra le corporeità di uomini e donne acrobati, che diventano l’una la protesi dell’altra in scalate ascetiche verso un nuovo tipo di voyeurismo.
Prima dei nostri gasometri, a elevare gli abitanti della terra sono stati Dio e, poi, Horace Gifford, l’ideatore di uno degli embrionali spazi queer dell’età moderna: le Fire Island Pines, negli States degli Anni Settanta. Nelle sue case aperte, la distanza verticale rendeva il pedone un visionario e colui che si innestava negli edifici un libero e protetto voyeur.
Dal panoticco al gabinetto segreto del Museo Archeologico di Napoli, l‘architettura ha sempre costruito questi regimi visuali, e ne La Goccia quello che emerge è l’ennesima ri-organizzazione della spettatorialità, a modello Clifford.
Nel voyeurismo tradizionale, infatti, c’è quello che guarda e quello che è guardato, a cui si assegna l’intero valore di esposizione. Lo sventramento dei gasometri mette in crisi questo codice, creando uno sguardo reversibile, che permette ai nostri equilibristi di essere spettatori e, al contempo, spettacolo. I due ambienti scenotecnici sovvertono e combattono l’ennesimo binarismo: quello del vedere, in un voyeurismo orgiastico tra corpi, industria e territori.
IL FUTURO DELLA GOCCIA
Di solito, quello che accade alla wilderness urbana è che diventa rapidamente un simbolo di perdita e disorientamento culturale e sociale. Vengono installate telecamere, luci più forti, e altri espedienti del controllo, per tracciare il comportamento e la composizione sociale dei visitatori: tutte misure che vanno contro lo sviluppo della vita naturale del luogo, di flora e fauna autoctone. Le luci forti allontanano gli insetti, i pipistrelli, le falene e tutti quegli animali non desiderati nei parchi delle moderne città borghesi.
Eppure, tra questo Parco Sempione jumanjiesco e il resto della Bovisa, nel tempo, si era instaurata una sottile e occulta geografia della non-interazione che ricorda l’obbligo del “disvedere” delle città-stato di Mieville. Ignorare le strutture, gli abitanti e i veicoli dell’altra città, pur condividendo, nelle zone intersezionate, gli stessi spazi: questo è quello che il Comune ha fatto per decenni con La Goccia. Fino a ora.
La questione del riordinamento urbano è tornata all’attenzione dopo che il Politecnico ha presentato un progetto per costruire un nuovo polo universitario e scavalcare il filo spinato che aveva protetto la Goccia dal greenwashing dell’edilizia milanese. In risposta alla crisi di Stato, nel 2012 si crea un’associazione di volontari: urbanisti, architetti e cittadini che si impegnano per salvaguardare la rovina industriale.
Il Comitato la Goccia propone, in opposizione all’Università e al Comune, un tipo di bonifica “verde” che riesca a ripulire il terreno per mezzo della vegetazione stessa. La tecnica del fitorimedio andrebbe, così, a evitare la demolizione degli edifici preesistenti, nonché l’abbattimento di alberi, funghi e nidi vari.
Niente di certo. Per ora, i voyeur urbani continuano indisturbati a piangere e fottere dopo le sei, contro l’ennesima, poetica estinzione delle architetture minori.
– Alessia Baranello
Articolo elaborato nell’ambito del corso di Critical Writing, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2021/2022
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