Futuro Antico. Intervista a Carlo Ratti
Dai consigli ai giovani progettisti fino all’urgenza di sostenibilità come garanzia di futuro: intervista a Carlo Ratti, uno degli architetti più apprezzati di oggi
Architetto e ingegnere, Carlo Ratti (Torino, 1971) ha fondato lo studio CRA, a Torino e New York, e dirige il Senseable City Lab presso il MIT di Boston. In questa intervista riflette sul futuro a partire dalle urgenze del presente.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali se parliamo di arte?
Il nostro gruppo di ricerca al MIT si occupa di Senseable City – nome che ha un duplice significato e che in italiano potremmo tradurre come città sensibile e capace di sentire. Mi piacciono coloro che esplorano queste dimensioni nell’arte. Penso per esempio a Olafur Eliasson, con cui abbiamo collaborato per la ristrutturazione dell’edificio della Fondazione Agnelli a Torino pochi anni fa. Oppure a Bill Viola, con cui abbiamo avuto molte conversazioni e che ha ispirato alcuni dei primi lavori del nostro laboratorio al MIT, ormai quindici anni fa. Andando indietro nel tempo, apprezzo molto i situazionisti come Constant, con la sua straordinaria utopia itinerante della New Babylon. Aggiungerei Felice Casorati, ma per motivi molto diversi ‒ legati alla comune origine torinese.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Scegliendo tra i progetti completati negli ultimi mesi, direi The Greenary, la casa di Francesco Mutti a Montechiarugolo (progettata insieme a Italo Rota). Si tratta di un edificio che si snoda intorno a un ficus alto oltre dieci metri, e attorno al quale sono organizzati tutti gli ambienti domestici, su molteplici livelli. Il nome è una sincrasi di “green” (“verde”) e “granary” (granaio), la struttura originaria su cui nasce l’intervento. Gran parte del nostro lavoro a CRA ‒ Carlo Ratti Associati esplora l’intersezione tra il mondo naturale e quello artificiale.
Il grande architetto veneziano Carlo Scarpa diceva: “Tra un albero e una casa, scegli l’albero” ‒ in questo caso li abbiamo scelti entrambi!
Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro?
Ricordo il famoso j’accuse di Paul Ricoeur: “Ormai troviamo dappertutto gli stessi film di bassa qualità, le stesse slot machine, i medesimi orrori di plastica o alluminio”. Il genius loci è un antidoto a questa deriva del mondo globalizzato, e che ci permette di tornare ai caratteri locali dell’architettura.
Tuttavia, mi piace intendere il genius loci in maniera diversa rispetto, per esempio, a Kenneth Frampton e alla sua idea di regionalismo critico. Insieme ad Antoine Picon e altri, qualche anno fa abbiamo proposto sull’Architectural Review una lettura diversa, che abbiamo chiamato Network Specifism. L’idea alla base di questo approccio è che sia importante considerare non tanto il luogo dove si svilupperà il progetto, quanto i contributi dei singoli professionisti che prendono parte al lavoro. La produzione architettonica diventa così relazionale, e l’aggregazione dei diversi input dati a un progetto ‒ provenienti da professionisti con retroterra e specialità differenti ‒ finisce per influenzare il risultato finale legandolo al territorio. Un modo più contemporaneo per mediare tra locale e globale.
IL FUTURO SECONDO CARLO RATTI
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Buckminster Fuller, il grande inventore eclettico americano, diceva: “Siamo chiamati a essere artefici del futuro, non le sue vittime”. Aggiungerei che non dobbiamo essere neppure vittime del passato. In particolare in Italia, dove a volte sembra esistere un dualismo tra futuristi e gondolieri, per dirla con le parole di Giuliano da Empoli. Dobbiamo riuscire a superare la polarizzazione tra chi vorrebbe buttar via tutto per lanciarsi nel domani e chi invece rivolge lo sguardo al passato. La posizione giusta per innovare ci impone infatti di partire dal presente.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la vostra strada?
Userei poche parole tratte dal film Jules & Jim di Truffaut. In una scena, Jim racconta il dialogo con il suo professore Albert Sorel: “Mais alors, que dois-je devenir?” ‒ “Un Curieux.” ‒ “Ce n’est pas un métier.” ‒ “Ce n’est pas encore un métier. Voyagez, écrivez, traduisez…, apprenez à vivre partout. Commencez tout de suite. L’avenir est aux curieux de profession”. Ecco: “Viaggiate, scrivete, traducete, imparate a vivere dovunque, e cominciate subito. Il futuro sarà dei curiosi di professione”.
SACRO E POST VERITÀ NELLE PAROLE DI CARLO RATTI
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Girerei questa domanda a Enzo Bianchi, che mi battezzò nella foresta attorno alla comunità di Bose oltre quarant’anni fa. Per me la sacralità è quella di cui parlava Einstein: “I believe in Spinoza’s god, who reveals Himself in the lawful harmony of the world, not in a god who concerns himself with the fate and the doings of mankind.” Un Dio che si rivela nella bellezza del mondo – e quindi anche nell’architettura.
L’architettura può contribuire a creare spazi che consentono alle persone di incontrarsi e discutere le proprie posizioni ‒ tenendo aperto il dialogo grazie alle virtù dello spazio fisico: vero antidoto alla polarizzazione del mondo post verità!
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Non mi aspetto scenari avveniristici di auto volanti e tecnologie alienanti profetizzati dai pessimisti. Mi piace pensare che si possa tornare a un maggiore equilibrio tra città e natura. Come dicevamo, la crisi dell’Antropocene che stiamo vivendo ci obbliga a ripensare il fenomeno urbano, ponendo la sostenibilità e l’economia circolare al centro del nostro lavoro. Poi però accendo il computer e vedo che la Russia ha invaso l’Ucraina – e penso che forse dovemmo ripartire dall’uomo.
‒ Marco Bassan
https://carloratti.com/
https://www.spaziotaverna.it/
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