Falsi storici. Dal campanile di San Marco al Ponte di Santa Trinita, dove scovarli in Italia
Il 14 luglio 1902 il campanile di San Marco collassa, dieci anni più tardi sarà ricostruito “com’era e dov’era”. È solo un esempio delle interpretazioni novecentesche scaturite da un’idea di restauro architettonico oggi superato, ma ancora ampiamente dibattuto
Venezia, è il 14 luglio 1902. Mancano pochi minuti alle 10 quando in piazza San Marco il campanile che per secoli è stato il simbolo della Serenissima si accascia su se stesso, franando fragorosamente. Le foto dell’epoca immortalano il cumulo di macerie che invade il salotto della città: fortunatamente non si contano vittime, né danni agli edifici circostanti (fatto salvo un angolo della Libreria del Sansovino). Il crollo, raccontano le cronache, era stato annunciato nei giorni precedenti dall’approfondirsi di una preoccupante fenditura apertasi sulla parete nord dell’edificio (la cui origine risale, probabilmente, a una tempesta di fulmini avvenuta nel 1745), ma l’evento, nonostante la precarietà dell’edificio già sottoposto in precedenza a ripetuti restauri per sanare difetti strutturali, sconvolge la comunità. Quel che resta, alla conta dei tesori superstiti, sono una statua in bronzo raffigurante Mercurio di Jacopo Sansovino, pur con il braccio destro rotto, un frammento di un calice in vetro di Murano, oggi conservato al Museo vetrario dell’isola, e la campana conosciuta come Marangona. Le macerie, trasportate nei giorni seguenti su un grosso barcone con il fondo apribile, alla presenza di Giacomo Boni, vengono gettate in mare, a meno di dieci chilometri dal Lido di Venezia: su uno dei mattoni viene incisa la data 14 luglio 1902, a conservare memoria del tragico episodio. Quello che succederà negli anni a seguire ci fornisce l’opportunità di passare in rassegna i falsi storici presenti in Italia: già poche ore dopo il crollo del campanile, infatti, il consiglio comunale di Venezia ne delibera la ricostruzione, stanziando 500mila lire per i lavori. Il 25 aprile 1903 la città assiste alla cerimonia di posa della prima pietra, per mano del sindaco Filippo Grimani; il cantiere si protrarrà fino alla primavera 1912, il nuovo “vecchio” campanile, ricostruito al motto di “dov’era e com’era”, sarà inaugurato il 25 aprile di quell’anno, in occasione della festa di San Marco. Non pochi sono i dubbi circa la scelta di realizzare una riproduzione fedele dell’opera antica: alla metà dell’Ottocento le teorie di John Ruskin circa il restauro architettonico romantico esercitano ancora un certo fascino, e in Italia diverse voci – Gustavo Giovannoni in testa – si levano a favore della scelta poi perseguita. Diversi decenni più tardi sarà Cesare Brandi a stigmatizzare quella decisione, “più una copia che un rifacimento”, additando la vicenda del campanile di San Marco – in un significativo passaggio della sua Teoria del restauro (1963) – come episodio funesto per la disciplina del restauro. Dibattito, questo, mai del tutto appianato, come dimostrano le recenti polemiche sollevate dalla ricostruzione della Fontana di Ercole alla Venaria Reale. Ma dove e perché troviamo i principali falsi storici architettonici in Italia?
‒ Livia Montagnoli
LA RICOSTRUZIONE DEL CAMPANILE DI SAN MARCO
Il progetto di ricostruzione del campanile franato (IX-XII secolo, interventi significativi all’inizio del XVI secolo) viene affidato all’architetto Luca Beltrami, sostenitore di un restauro basato su una attenta ricerca documentaria e iconografica che scongiuri l’arbitrarietà dell’intervento (anche se lui stesso non si astiene da interventi verosimili in caso non disponga di documenti sufficienti). A Venezia lavora con Giacomo Boni. Si scelsero mattoni in arrivo dalla Marca Trevigiana, simili nel colore agli originali; si consolidarono le fondamenta, adottando tecniche costruttive moderne e più sicure per il futuro dell’edificio; si decise, inoltre, di reintegrare alcune parti distrutte: come i due Leoni andanti in pietra d’Istria posti nel dado sopra la cella e la statua in rame sbalzato dell’Arcangelo Gabriele ricomposta con frammenti originali copiando l’antico modello del 1822. A celebrare l’inaugurazione del 1912, un’emissione filatelica sancisce definitivamente il motto “com’è era, dov’era”.
IL BORGO MEDIEVALE DI TORINO
Imita in tutto e per tutto una antica cittadella fortificata il borgo che si incontra passeggiando nel Parco del Valentino, sulla sponda sinistra del Po. Nato nel 1884 come Sezione di Arte Antica dell’Esposizione Generale Italiana, riproduce un borgo feudale del XV secolo, dove ogni dettaglio è studiato per sembrare vero. Il gruppo di progettisti guidato dall’architetto portoghese Alfredo d’Andrade, infatti, non persegue solo l’obiettivo di creare un luogo pittoresco assecondando la corrente culturale imperante del neomedievismo ottocentesco, ma si pone anche finalità didattiche ed educative, preoccupandosi al contempo di salvaguardare la memoria del patrimonio storico-artistico piemontese e valdostano, che funge da ispirazione per decorazioni e arredi (con riferimento a stili e opere quattrocenteschi, in particolare il gotico subalpino). Nel suo insieme, dunque, il borgo è frutto di un’invenzione, ma ogni elemento architettonico, decorativo e di arredo è riprodotto con precisione filologica da modelli originali del XV secolo, rintracciabili all’epoca in Piemonte e Valle d’Aosta, con la Rocca, le botteghe e le case del villaggio, la Casa di Borgofranco con la taverna.
Il 27 aprile 1884 il Borgo viene inaugurato alla presenza dei sovrani d’Italia, Umberto e Margherita di Savoia. Mentre il castello fu costruito per durare nel tempo, il villaggio era destinato alla demolizione al termine dell’Esposizione; ma il grande successo del complesso ne determinerà la sopravvivenza, con l’acquisto da parte della Città di Torino, e l’ingresso nel circuito del Musei Civici poco prima della metà del XX secolo. Dal 2003 il Borgo è gestito dalla Fondazione Torino Musei ed è sede di mostre temporanee.
LE PORTE PALATINE DI TORINO
Battezzata al plurale, la porta è in realtà una e costituisce traccia dell’accesso monumentale alla civitas romana realizzato nel I secolo a.C. per consentire l’entrata da nord all’Augusta Taurinorum. Già nel XV secolo la porta fu ricostruita e munita di merlature. Nel Settecento la porta cessò di esercitare la sua funzione, diventando temporaneamente un carcere, con l’aggiunta di un edificio costruitole a ridosso, per ampliare gli spazi. Sarà Alfredo d’Andrade (al lavoro anche nel Borgo del Valentino) a ripristinare l’aspetto originale del monumento, intervenendo sulle aggiunte realizzate nel corso del tempo – come le merlature quattrocentesche – per riportare in auge il prestigio delle antiche vestigia, generando, di fatto, un falso storico. Nel periodo fascista saranno aggiunte le statue di Cesare e Augusto.
LA TORRE DEL FILARETE DEL CASTELLO SFORZESCO DI MILANO
Molto curiosa è la vicenda della Torre del Filarete che caratterizza il prospetto del Castello Sforzesco affacciato su piazza Castello, consentendo l’accesso alla grande corte interna. Oggi tra i simboli di Milano, la torre fu in realtà ricostruita in stile a cavallo tra il XIX e il XX secolo, sul modello dell’originale realizzata nel 1452 da Antonio di Pietro Averlino o Averulino, detto il Filarete, su commissione di Francesco I Sforza, già distrutta nel 1521, a causa di un’esplosione. Sul finire dell’Ottocento, Luca Beltrami (alle prese qualche anno più tardi con il campanile di piazza San Marco) viene incaricato di realizzare una quinta teatrale in legno e tela che imiti la Torre, in occasione di uno spettacolo d’illuminazione per il Gran Premio del Commercio. Della vicenda resta memoria in una foto d’epoca scattata da Giovan Battista Origoni: la precarietà della struttura ne determinerà il crollo in soli due giorni, ma proprio l’esperimento darà il la alla decisione, a furor di popolo, di edificare una torre in muratura nell’ambito del restauro del Castello già programmato. In mancanza di documentazione ampia, si opta per un progetto verosimile, ispirato alle torri quattrocentesche conservate sul territorio (modello principale sarà il castello di Vigevano). Altre fonti con cui confrontarsi sono il progetto per la fronte del Castello di Milano di Leonardo da Vinci e la descrizione della Rocca Sforzinda che il Filarete presenta come castello ideale nel suo Trattato di Architettura. Alta 70 metri e coronata da una merlatura a coda di rondine a sbalzo, con due successivi rialzi e un cupolino a tamburo ottagono che corona la struttura, la Torre è completata nel 1905, e intitolata al re Umberto I, assassinato nel 1900.
IL CAFFÈ PEDROCCHI DI PADOVA
È vicino a festeggiare i duecento anni di attività il Caffè Pedrocchi di Padova, storico salotto e circolo culturale del centro cittadino, assurto a fama internazionale. Gli inizi della storia risalgono al 1831, quando Antonio Pedrocchi, desiderando realizzare un caffè monumentale che fosse “il più bello della Terra”, incarica l’architetto veneziano Giuseppe Jappelli di presiedere al progetto. Nel rispondere alle esigenze dell’ambizioso committente, l’architetto segue il gusto dell’epoca per il revival dell’antico, realizzando un edificio ibrido, che negli spazi interni è pienamente allineato alle esigenze e allo stile dell’epoca, ma all’esterno si caratterizza per un dichiarato stile neogotico che coesiste con una loggia sostenuta da colonne doriche. Alla difficoltà di lavorare su una pianta irregolare Jappelli rispose infatti con un edificio eclettico, tenuto insieme dall’impianto di stile neoclassico che resta il punto di partenza. Il corpo aggiunto in stile neogotico, ribattezzato “Pedrocchino”, fu completato solo nel 1839 per ospitare l’Offelleria (la pasticceria), in parte sventrata nel secondo Dopoguerra dal progetto di restauro seguito da Angelo Pisani.
PALAZZO RE ENZO A BOLOGNA
Dal 1245 nel cuore di Bologna, recita l’invito a visitare Palazzo Re Enzo, edificio comunale realizzato nell’ambito del grande cantiere pubblico che alla metà del XIII secolo plasma piazza Maggiore. Il nome si deve alla di poco successiva residenza di Re Enzo di Sardegna, prigioniero della battaglia di Fossalta, che nel palazzo soggiorna fino al 1272. Nei secoli a seguire, soprattutto tra Sei e Settecento, l’edificio subirà diversi ampliamenti e rifacimenti, fino al restauro condotto all’inizio del Novecento da Alfonso Rubbiani (autore, nel 1913, del saggio Di Bologna riabbellita, che evoca i fasti dell’architettura medievale e ne giustifica il ripristino), il quale, lungi dal conservare la stato coevo delle cose, opta per il ripristino dell’aspetto gotico del complesso, ricostruendo le merlature, le arcate del pianterreno e la scala quattrocentesca. Per farlo, l’architetto demolisce il fabbricato risalente al 1572, giudicandolo “privo di valore storico” (nel 1910 viene perciò abbattuta la facciata su piazza Nettuno, insieme ad alcuni edifici prospicienti). Diversi decenni più tardi, la riscoperta sul muro di settentrione di alcune finestre originali della costruzione duecentesca renderà lampante l’abbaglio della ricostruzione in stile di Rubbiani: bifore con archetti a sesto acuto sono le aperture rinvenute, trifore con archetti a sesto pieno sono quelle costruite da Rubbiani nella facciata occidentale, prendendo a modello palazzi coevi. Alla vicenda, nel 1981, fu dedicata la mostra Alfonso Rubiani: i veri e falsi storici.
IL BORGO DI GRAZZANO VISCONTI
Sulle colline piacentine, il borgo di Grazzano Visconti vanta un aspetto dichiaratamente medievale, sebbene sia stato ideato solo ai primi del Novecento (1905-1906) da Giuseppe Visconti di Modrone, con il supporto dell’architetto Alfredo Campanini. L’abitato si sviluppa a ferro di cavallo attorno al castello omonimo, che è l’unica struttura originale, almeno in parte, di epoca medievale, eretta per volere di Giovanni Anguissola nel 1395. All’inizio del XX secolo, però, anche le facciate del castello vengono impreziosite con merlature e richiami gotici. E anche il parco, esemplato sul modello dei giardini all’italiana quattrocenteschi, è ripensato ad hoc. Il discendente del casato Visconti era peraltro un estimatore del movimento Arts and Crafts e sosteneva l’importanza dell’artigianato come espressione della creatività umana. Per questo, alla progettazione del villaggio medievale corrisponde il ripristino di antichi mestieri che consolidano un vero e proprio stile d’arredo ribattezzato “Grazzano”, tra soffitti lignei intagliati, intarsi policromi, mobili decorati con grifoni. Oggi le botteghe artigiane del borgo continuano a essere operative, e tramandano una visione anacronistica quanto affascinante del sapere artigiano.
IL PONTE DI SANTA TRINITA A FIRENZE
“Il ponte a Santa Trinita dell’Ammannati a Firenze, che i Tedeschi avevano fatto sprofondare, ma che avrebbe potuto essere ricostituito, almeno per il paramento esterno, con le pietre cadute nella pescaia del fiume, fu invece edificato ex-novo, inserendo un falso sfacciato nel cuore di Firenze”. Così si pronuncia Cesare Brandi alla voce “restauro” dell’Enciclopedia Treccani, pur concedendo all’operazione fiorentina l’attenuante dell’approccio incerto, riguardo alla disciplina del restauro architettonico, che caratterizzò l’immediato secondo Dopoguerra. Distrutto dalle mine dei tedeschi in ritirata la sera del 3 agosto 1944, il Ponte di Santa Trinita subì, come troppa parte del patrimonio storico-artistico italiano, la devastazione non solo umana della guerra. Per rimpiazzare l’originale, progettato nella seconda metà del Cinquecento (1567-71) da Bartolomeo Ammannati, si decise però di riprenderne in tutto e per tutto forme, stile e persino tecniche costruttive. Dopo undici anni di studio e recupero dei frammenti originali, il cantiere si protrasse per due anni: il 16 marzo 1958, il “nuovo” Ponte di Santa Trinita viene inaugurato “dov’era e com’era”. E seppure in tanti – Ranuccio Bianchi Bandinelli in testa – avessero sostenuto la necessità di ricorrere al moderno cemento armato per realizzare una struttura interna più solida, prevalse la posizione opposta, chiarita dal pensiero di Carlo Ludovico Ragghianti, per il quale in un’opera d’arte “la tecnica non è scissa dalla forma”. Originali sono le quattro statue tardo cinquecentesche delle Stagioni, poste agli accessi del ponte.
L’ABBAZIA DI MONTECASSINO
Anche l’Abbazia di Montecassino subisce all’epoca della Seconda Guerra Mondiale pesanti bombardamenti che la distruggono in buona parte: è il 15 febbraio 1944 quando, temendo che l’edificio fosse utilizzato come rifugio dalle truppe tedesche, gli Alleati scatenano un raid che rade quasi al suolo il complesso, a eccezione dell’angolo sud-ovest dell’edificio.
Il monastero fondato da Benedetto nel 529 fu a più riprese distrutto (nel 581 a opera dei Longobardi; nell’883 dai Saraceni; nel 1349 da un terremoto) e ricostruito. Dopo la guerra, prevale anche a Montecassino la volontà di ripristinare il “com’era e dov’era”, nonostante le polemiche scatenate da un’operazione additata da alcuni come falso storico. I lavori iniziano nell’aprile 1949 e durano dieci anni: lo stile scelto è il barocco del progetto firmato da Cosimo Fanzago nel 1627, per l’ampliamento della Cattedrale che aveva decretato all’epoca l’inizio di un processo di monumentalizzazione dell’abbazia. Si utilizza, allo scopo, il materiale marmoreo recuperato tra le macerie, si studiano i disegni di rilievo realizzati da Antonio da Sangallo nel 1531, ma anche quelli di Gustavo Giovannoni del 1929. E si utilizzano, per una ricostruzione quanto più fedele possibile, i disegni del monaco Angelo Pantoni, messi in salvo prima del bombardamento. La ricostruzione fu diretta dall’ingegnere Breccia Fratadocchi e coinvolse anche la Cattedrale.
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