Razzismo e architettura: qual è il legame?
L'omicidio di Alika Ogorchukwu è davvero privo di connotazioni razziali, come sostengono gli inquirenti? Oppure è una valutazione viziata da una tradizione di sopraffazione in cui l'architettura svolge un ruolo tutt'altro che irrilevante?
L’uccisione brutale di Alika Ogorchukwu, il venditore ambulante pestato a morte su una delle strade centrali della cittadina di Civitanova Marche, lascia sgomenti, pietrificati per la sua incomprensibile violenza. Sorprendente, però, è anche l’immediata affermazione degli investigatori che, a brevissima distanza dall’omicidio, quasi a metter fuori gioco l’argomento, hanno escluso la motivazione razziale.
Accanto al fatto in sé, questa esclusione, così rapida e radicale, richiede una riflessione. Una riflessione sulla difficoltà in Italia di riconoscere ed elaborare l’esistenza di una questione razziale sul territorio italiano. Una difficoltà che riguarda la nostra cultura in generale, ma che tocca anche molto da vicino la cultura architettonica italiana.
RISORGIMENTO E RAZZISMO: LA QUESTIONE MERIDIONALE
Che relazione c’è tra l’orrore di Civitanova, la violenza razziale e l’architettura? Apparentemente nessuna. Come spesso accade, però, l’apparenza non è che il frutto di una lettura povera di strumenti: priva, cioè, di una lente capace di mettere a fuoco, capace di vedere e far vedere la centralità della violenza razziale non solo in una frazione specifica, ristretta e lontana di tempo e di spazio, ma nel cuore della storia europea, della modernità, del capitalismo, e del consolidamento dell’assetto in Stati nazionali.
Come italiani, infatti, siamo educati a pensare la storia recente del nostro Paese, la storia dell’Italia che si unisce e diviene nazione, come un processo lineare, progressivo e progressista. Un processo dal quale tanto i confini spaziali del Paese quanto gli italiani emergono belli e fatti: quasi come se ci fossero sempre stati.
In realtà, le gesta eroiche e la “ragione” del Risorgimento (la sua dimensione illuminista e razionale) oscurano (nella storiografia e nel racconto comune con cui pensiamo l’Italia) la violenza con cui il nuovo Stato reprime la resistenza del Sud (una violenza che, nella lotta al brigantaggio, ridotto a fenomeno di devianza sociale, fa più morti dei caduti nei moti risorgimentali). Una repressione alla cui base è proprio la costruzione di un discorso razziale che, al momento stesso dell’unione, divide l’Italia e gli italiani in due, in italiani del Nord e meridionali, variamente descritti come una pericolosa malattia capace di infettare il Nord, o anche come una piaga, un tumore, una cancrena, un vaiolo, un’ulcera. Una costruzione (pluridisciplinare) che arriva a teorizzare l’esistenza di una “Italia barbara”: nata delinquente, o criminale, perché portatrice di una malformazione strutturale. Un atavismo che porta gli italiani del Sud a vivere ammassati, arroccati, in conglomerati densi, malsani, bestiali, dai bassi napoletani ai sassi alle cittadine siciliane.
“Che cosa può fare l’architettura oggi, come strumento di analisi, di critica e progetto, per renderci più uguali, per farci incontrare, e per recuperare chi è stato schiacciato e tenuto in basso?”
La cancellazione della centralità nella storia italiana della questione razziale prosegue nel silenzio sull’intreccio tra costruzione della unità nazionale e degli italiani e il tentativo di conquista ed espansione coloniale, in territori e su popolazioni ritenuti inferiori nella scala razziale e, dunque, bisognosi della civilizzazione italiana (vedi Mazzini ne I doveri dell’uomo) e utili per completare l’Italia, trovando nel terre “al sole” un’apparente soluzione per il sovraffollamento e la fame del Sud.
È raccogliendo questa eredità liberale che il fascismo, mentre spinge e moltiplica la violenza coloniale, fa dell’ingegnerizzazione della razza (ben prima della ratifica delle leggi razziali) un tema esplicito e formale. Il culto del corpo ginnico ed eroico, il ruolo della donna come strumento riproduttivo, la coltivazione della gioventù vengono iscritti nei marmi degli stadi, degli istituti di igiene, delle colonie marittime e montane.
Nel dopoguerra, il rinato razzismo contro i meridionali (durante il ventennio rivolto ai sudditi coloniali) lascia a poco a poco il posto al nuovo razzismo verso chi, attratto dal grande mercato unico della nascente Comunità Europea, comincia negli Anni Ottanta ad attraversare il mare, in una sorta di ondata di ritorno dopo la lunga marea che dall’Ottocento aveva fatto dell’Africa (come del resto del mondo) un territorio europeo da conquistare e depredare.
ARCHITETTURA MODERNA E RAZZA
Tornando ai fatti di Civitanova e all’architettura, il punto è chiedersi: che ruolo ha avuto l’architettura nel rendere certe vite umane meno preziose di altre? Con quali strategie lo spazio è stato usato per dividere, per costringere, per violare? In che modo la forma, l’architettura e la cultura architettonica sono state usate per affermare una differenza, per decretare inferiorità, per spingere e mantenere in basso, in una posizione subalterna e servile? E poi, che cosa può fare l’architettura oggi, come strumento di analisi, di critica e progetto, per renderci più uguali, per farci incontrare, e per recuperare chi è stato schiacciato e tenuto in basso?
In un Paese ancora dominato da un pensiero architettonico che oscilla tra il formalismo zeviano e la prospettiva marxista di stampo tafuriano, questo cambiamento di paradigma fatica a trovare spazio. Eppure altrove queste domande sono centrali. La pubblicazione di Race and Modern Architecture: a Critical History from the Enlightenment to the Present, curato da Irene Cheng, Charles L. Davis e Mabel O. Wilson (2020), non è che la più recente di una lunga serie di titoli che hanno illuminato il ruolo dell’architettura nella costruzione di una modernità in cui ogni “scoperta” è stata anche conquista, espropriazione, appropriazione, esclusione, cancellazione da parte di pochi contro tanti e tante che, proprio come Alika Ogorchukwu, sono stati spinti e costretti a terra.
DA ISRAELE A LE CORBUSIER: ARCHITETTURA E COLONIALISMO
Tra questi libri, un ruolo centrale ha svolto certamente Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation (2007, tradotto come Architettura dell’occupazione: spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele), studio con cui Eyal Weizman rivela la centralità del pensiero e della pratica architettonica come arma di conquista, occupazione e sorveglianza civile e militare del territorio da parte degli israeliani, aprendo un vero e proprio campo di ricerca poi denominato architettura forense.
Procedendo a ritroso, voglio citare almeno altri due testi fondamentali. Innanzitutto, la critica dirompente del Plan Obus (e della sua lettura da parte di Tafuri) nel saggio Le Corbusier, Orientalism, Colonialism (1992) in cui Zeynep Çelik illumina la problematica natura del gesto di Le Corbusier, che fornisce al potere politico dell’amministrazione coloniale un nuovo ordine urbano capace di facilitare la supervisione della popolazione musulmana. Ancora, nel 1981 è in Rabat: Urban Apartheid in Morocco che Janet Abu-Lughod, riprendendo Frantz Fanon (“I colonizzatori hanno circondato la città nativa; l’hanno assediata”, 1959), legge la contrapposizione tra la città storica e la città francese in termini di apartheid ovvero di voluta e imposta, radicale segregazione razziale.
“Architettura e razzismo non solo non sono termini estranei, ma sono termini che devono incontrarsi, per rileggere il passato e per costruire un presente in cui l’architettura divenga una contro-arma”
L’architettura però, se tradizionalmente è stata prevalentemente strumento del potere, della sopraffazione e dell’estrazione, può essere anche strategia di comunità, intelligenza di recupero, accoglienza, riuso, rivitalizzazione, inclusione. Esemplare in questo senso resta il lavoro di ricerca curato dallo studio Encore Heureux per il Padiglione Francese alla Biennale di Architettura del 2018 intitolato Lieux infinis, racconto di dieci luoghi in cui amministrazioni cittadine e soggetti privati, affiancati da architetti coraggiosi, hanno sperimentato nuove forme di rifugio, affidando luoghi bisognosi di cure a comunità in cerca di spazi. Con il sostegno degli architetti, questi luoghi sono stati infatti offerti all’appropriazione “creativa” dei cittadini, spesso a costo zero per l’amministrazione ma con un alto ritorno sociale in termini di risposta a emergenze abitative e lavorative, e di rafforzamento dei rapporti tra comunità con storie, etnie, origini e linguaggi differenti.
È questa architettura come rifugio, come cura, come recupero di relazioni ecologiche in senso lato ma anche e specificatamente di relazioni umane, ciò di cui oggi abbiamo bisogno, quello che davvero può fare la differenza, nelle città come nelle campagne, nelle capitali così come nei piccoli centri. Architettura e razzismo, dunque, non solo non sono termini estranei ma sono termini che devono incontrarsi, per rileggere il passato e per costruire un presente in cui l’architettura divenga una contro-arma: una strategia di unione, di ri-equilibrio, di incontro, di inclusione. Progettando, non semplicemente spazi pubblici, ma luoghi plurali: luoghi pensati per accogliere, per rialzare chi è stato schiacciato a terra, per dargli una nuova opportunità, per incoraggiare il dialogo e la compresenza.
– Maria Luisa Palumbo
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