Inizia la Biennale Architettura 2023. Intervista alla curatrice Lesley Lokko
Punta sull’Africa e si pone in ascolto di realtà interdisciplinari ed emergenti la 18. Mostra Internazionale di Architettura, al via a Venezia il prossimo 20 maggio. E promette di essere una “bottega artigiana”
“Una personalità internazionale, capace di interpretare con diversi ruoli la propria posizione nel dibattito contemporaneo su architettura e città, che parte dalla sua esperienza immersa in un continente che sempre più sta diventando un laboratorio di esperienze e proposte per tutto il mondo contemporaneo”: queste le parole scelte, nel dicembre 2021, dal Presidente della Biennale di Venezia, Roberto Cicutto, per rendere nota la scelta di Lesley Lokko (Dundee, 1964) come curatrice della 18. Mostra Internazionale di Architettura.
Architetta, scrittrice bestseller, docente di architettura con all’attivo esperienze nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Europa, Australia e Africa, Lokko ha un PhD in Architecture alla University of London e un BSc (Arch) and MArch alla Bartlett School of Architecture, UCL (University College London). Pluripremiata, nell’arco di un trentennio di lavoro, tanto nell’architettura che nella letteratura, si è dedicata alla relazione tra “razza”, cultura e spazio. Nel 2019 è stata nominata Preside della Bernard and Anne Spitzer School of Architecture di New York, ruolo che ha ricoperto fino al 2020, anno in cui ha fondato l’African Futures Institute: scuola di specializzazione in architettura e piattaforma di eventi pubblici, ha sede ad Accra, in Ghana, e dovrebbe avviare l’attività didattica il prossimo anno.
Per il 2024 è inoltre attesa la pubblicazione del suo nuovo romanzo, The Lonely Hour, per Pan Macmillan editore. In occasione della 17. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia ha fatto parte della Giuria Internazionale. Ecco cosa ci ha raccontato alla vigilia dell’apertura della “sua” mostra.
INTERVISTA A LESLEY LOKKO
Cominciamo con un passo indietro. Nel 2022, durante un’intervista per il format Design Emergency curato da Paola Antonelli e Alice Rawsthorn, ha affermato che “il cambiamento procede lentamente, ma, quando inizia ad acquisire velocità, diventa inarrestabile”. Pensa (o almeno auspica) che la sua Biennale venga ricordata come il punto d’avvio di un processo di cambiamento che, almeno in architettura, non può più essere rinviato?
Ritengo che il cambiamento sia iniziato molto prima della mia nomina per questa Biennale. Considero quanto sta avvenendo come la prosecuzione di un processo che ha già avuto inizio. Data la natura di evento pubblico della Biennale, la sua importanza, l’audience globale, ritengo che ora acquisirà un po’ di velocità. Ma non considero la mostra come il primo passo.
Dopo la presentazione della mostra, molti media anche in Italia hanno adottato espressioni come “cambio di paradigma” per sintetizzare l’orizzonte della sua Biennale. Provando a osservare l’appuntamento dal punto di vista della comunità africana, con un concreto cambio di prospettiva, quale immagina potrà essere l’impatto e l’eredità culturale di The Laboratory of Future? Lei viene considerata una sorta di “ponte” fra Africa ed Europa.
Innanzitutto credo che inaugurare in questa edizione il Biennale College Architettura sarà un momento significativo. Controllando le candidature, è emerso che il 64% degli aspiranti partecipanti provengono dal sud del mondo: è abbastanza inusuale in questo tipo di eventi.
Più in generale interpreto la Biennale come una sorta di piattaforma, non per avviare da zero il cambiamento, come accennavo, ma per amplificare e focalizzare l’attenzione su quello che sta crescendo e maturando da tempo. Penso che per molti dei partecipanti, sia africani che del sud del mondo, sia significativa la concentrazione di attenzione, non tanto il fatto in sé di essere stati selezionati: sono sempre stati lì. Ma partecipare a un evento come questo, nel nord del globo, accende uno specifico faro su di loro. Li potenzierà ed è anche un’assunzione di responsabilità per loro. Una cosa è dire “Datemi il mio posto al tavolo! Datemi la mia opportunità di esprimermi!”: devi poi saper mostrare cosa hai da dire ed essere pronto e preparato su quello che vuoi comunicare, per divenire parte attiva del processo. In definitiva credo sarà, nello stesso tempo, un’opportunità e una responsabilità.
ARCHITETTURA, AFRICA E FUTURO SECONDO LOKKO
Avverte il rischio che temi come la decolonizzazione e la decarbonizzazione possano essere percepiti dal vasto pubblico della Biennale, composto non solo dagli addetti del settore, come eccessivamente specialistici? Oppure i tempi sono maturi per associare questo appuntamento a questioni di tale urgenza?
Sono un’architetta e per molto tempo ho scritto e pubblicato libri. Una delle cose che ho imparato, lavorando ai romanzi, è che per raccontare la complessità o i concetti profondi devi saper dimostrare che non sono complicati. Perché solitamente si genera confusione aggiungendo complicazioni a qualcosa che è già complesso. Gli autori di narrativa devono essere chiari: non semplici, ma chiari. Penso che gli architetti possiedano un linguaggio davvero specialistico: io stessa, pur essendo architetta, confesso di non riuscire sempre a capire tutte le pubblicazioni di settore. Di conseguenza, fra i criteri di partecipazione a questa Biennale rientra la richiesta di chiarezza. La mia speranza è che, mettendo insieme 89 partecipanti che hanno una comprensione completamente diversa di questi due termini molto chiari – decolonizzazione e decarbonizzazione –, il pubblico sarà in grado di capire quanto sia visionario, ricco e interessante questo argomento. Perché non riguarda una singola domanda e non si presta a una singola risposta, non è connesso alle risorse che possiedi, all’area da cui provieni: riguarda tutti noi.
Accennava alla sua carriera di scrittrice. Quale sarà il peso della componente narrativa nella sua mostra, intendo proprio nell’allestimento?
Lo storytelling è il cuore di ciò che faccio, che sia attraverso la scrittura o l’architettura: le percepisco come la stessa cosa, usano solo medium diversi. Dato che la storia che cercheremo di raccontare è complessa, è molto importante che la parte narrativa sia chiara. Ci sarà quindi un’articolazione diversa dalla canonica successione di un progetto dopo l’altro, con un vero e proprio percorso narrativo.
A cominciare dal titolo, la sua Biennale dichiara di volerci parlare di futuro. E dunque come immagina gli architetti del futuro? Cosa va fatto da subito per formare la prossima generazione? Sappiamo che per il prossimo anno è previsto l’inizio dell’attività didattica dell’African Futures Institute, la scuola post-laurea di architettura che ha fondato ad Accra, in Ghana.
Salvo poche eccezioni, il modo in cui l’architettura viene insegnata è rimasto lo stesso da 300 anni. Eppure il mondo è estremamente cambiato. Nei miei trenta anni di insegnamento universitario, ho capito che l’università è spesso l’ultimo posto in cui poter attuare il cambiamento. È come nell’esercito: ha un sistema di protocolli, tradizioni… Essere capace di adattarsi a qualcosa che cambia molto rapidamente e recepire quanto avviene è molto difficile per quel tipo di struttura. Penso che in futuro la formazione in architettura si distanzierà da quella accademica tradizionale. In Africa vediamo già gli effetti di molti di quei paradigmi di cui il nord del mondo si inizia solo ora a preoccupare, la giustizia razziale, il cambiamento climatico, i riflessi delle proteste sociali, la democrazia e la governance. Mi è sembrato logico sperimentare lì nuove forme educative in architettura: è il luogo chiave per un laboratorio in cui testare il tipo di formazione necessario a creare l’architetto del XXII secolo. In Occidente si continua a percepire l’architetto come la figura che costruisce edifici: ma gli architetti fanno molto di più. Costruiscono società, competenze, conoscenza.
Valentina Silvestrini
https://www.labiennale.org/it/architettura/2023
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